
08/09/10
Da Il Messaggero
Non è facile immaginare le punizioni corporali, come le novanta note frustate sul corpo denudato di una donna. Sono cose che appartengono ai tempi lontani in cui i bambini si prendevano a cinghiate se non studiavano, tempi in cui ai ladri si tagliavano le mani, in cui le presunte streghe venivano appese al chiurlo. Ovvero a un gancio del soffitto per le sole braccia, che dopo un poco si slogavano e il dolore era tale che finivano per confessare qualsiasi cosa. La fantasia non mancava ai nostri antenati che credevano nei diavoli tentatori , nelle scope volanti, nelle donne indemoniate che tiravano fuori dal petto il cuore ancora caldo dei bambini appena nati per mangiarseli nei sabbah. Solo che ai tempi di queste punizioni corporali non c'erano ancora state le grandi scoperte della scienza, le grandi scoperte della psicanalisi, le grandi scoperte della biologia, le grandi scoperte della storia dell'universo.
Noi siamo i figli di quel pensiero e ogni punizione corporale oggi ci appare ripugnante, sadica e soprattutto inutile. Eppure dobbiamo mettere in moto l'immaginazione storica e cercare di capire cosa vogliano dire novantanove frustate. Basta leggere qualche cronaca dell'Inquisizione. Dopo la quinta frustata una schiena umana è già gonfia c rigata di sangue. Il dolore è lancinante e sale dalla schiena al cervello. IL corpo trema tutto, si accende di febbre, gli occhi tendono a uscire dalle orbite, i denti battono con tale forza che la lingua si ferisce da sola. Dopo la quarantesima frustata per fortuna il corpo tende a svenire. La soglia di sopportazione del dolore è stata superata e il fisico preferisce arrendersi piuttosto che proseguire. Ma il cuore continua a battere e - sto parlando dell'Inquisizione - la penitente viene risvegliata con pizzicotti e schiaffi perché deve vivere fino in fondo il dolore di quella sacrosanta punizione che per gli aguzzini è voluta direttamente da Dio. Dopo la cinquantesima frustata la mano del boia è stanca, la schiena della donna una poltiglia di sangue e carne viva. Alla ottantesima, la penitente sarà già svenuta altre due volte e due volte riportata alla sensibilità con acqua e aceto nelle narici. A meno che le frustate non siano puramente simboliche, non credo che il rituale sia molto diverso nell'Iran di Ahmadinejad.
È proprio l'idea della punizione corporale che è stata condannata dalla storia. Dopo le belle pagine di Cesare Beccarla non possiamo più credere che la tortura faccia dire la verità ai condannati. Al contrario: li fa mentire rapidamente, per fare cessare l'inumano tormento. Così come la pena di morte non impedisce ai malandrini di agire malamente. Ora immaginiamo una giovane donna che dopo avere subito novantanove frustate sia stata gettata su un giaciglio, nel braccio della morte di una squallida e oscura prigione. Lì piano piano si sarà ripresa. Forse qualcuno avrà avuto pietà di quel corpo piagato. Ma nessuno dei familiari ha potuto vederla o parlarle. Perché la punizione non è finita. Dopo le frustatele toccala pena di morte, quella che spetta alle adultere nel mondo del fanatismo religioso: la lapidazione. Il corpo viene sepolto fino alle spalle - gli uomini possono avere le braccia libere, le donne no - nella terra nuda. Attorno saranno raccolti i parenti e gli amici del villaggio, perché tutti debbono essere complici del castigo che sarà celebrato come un rito pubblico. Le pietre non dovranno essere troppo grandi perché non l'ammazzino subito, né troppo piccole perché la ferirebbero solo in superficie. Naturalmente è Dio stesso a chiedere queste violenze. Un dio che viene chiamato di giustizia e d'amore. Tutto questo sarebbe passato sotto silenzio se la donna frustata, Sakineh Ashtiani, non avesse due figli che, conoscendo e amando la madre, hanno fatto di tutto per dare notizia delle torture al mondo intero.
Le associazioni per la pace, quelle contro la violenza, gli intellettuali, i giornali, la rete internet, hanno risposto e ne è nato un caso internazionale. I giudici e gli accusatori, interpreti severi della legge divina, devono però avere qualche dubbio sul loro comportamento. Appena il caso è diventato noto, infatti hanno sospeso la pena. E poi, sperando di convincere i pericolosi eretici, hanno detto che la donna era complice del delitto di suo marito. Come se aggravando la colpa, si giustificasse la orrenda e anacronistica punizione corporale. E non le hanno neanche permesso di avere un avvocato. Che, appena nominato, è stato costretto a scappare in Norvegia perle minacce ricevute. Oggi Sakineh è un simbolo e come tutti i simboli può essere devastante per chi lo tocca. Oltre tutto rende simbolica anche la punizione che colpisce non solo quel corpo, ma tutti i corpi delle donne. Battendosi per Sakineh ci si batte contro la tortura in generale, contro una concezione della pena non più accettata dalla sensibilità moderna.
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