
04/02/11
Secolo d'Italia
Eravamo nei primi mesi dell’ormai lontano 1962. E nelle settimane immediatamente precedenti era scoppiato sui giornali il "caso" Piccardi. Nell’ottobre dell’anno prima un evento imprevisto aveva scatenato incomprensioni, divergenze, accuse, rotture e delegittimazioni. È già passato quasi mezzo secolo. Eppure, anche questa volta, la memoria, quando una storia è viva, se è davvero viva, ci può aiutare a comprendere il passato e a interpretare anche alcuni eventi del presente e del futuro. Dopo tanti anni, è forse utile raccontare come, proprio in virtù di quel fantomatico imprevisto che investì Leopoldo Piccardi, l’allora gruppo dirigente radicale apparve disorientato, destinato al tramonto. Lo scontro fece deflagrare la coesione del gruppo di uomini e donne che si erano raccolti intorno a Mario Pannunzio e a Ernesto Rossi. Sembrava quasi la fine di un percorso rimasto ancora allo "stato nascente". Nel corso del tempo, è accaduto a tutti i partiti, accade anche nelle migliori famiglie, fa parte della storia dei gruppi organizzati e alle dinamiche interne. Forse è un passaggio obbligato. Nella Prima Repubblica ci sono passati un po’ tutti: socialisti, missini, liberali, comunisti, democristiani. Ed è un passaggio che ha vissuto anche il Partito Radicale. Infatti, in quell’occasione, a causa dello scandalo esploso intorno a Piccardi, quel partito si spaccò e si frantumò in diversi pezzi.
Insomma, accadde che, nel 1961, lo storico Renzo De Felice pubblicò uno dei suoi libri sulla storia del fascismo dove, tra l’altro, veniva rivelato che Leopoldo Piccardi, all’epoca segretario radicale, alla fine degli anni Trenta, era stato a Vienna come relatore in un convegno razzista. La questione apparve molto grave. Anche perché l’interessato aveva sempre taciuto un tale episodio che, di conseguenza, venne avvertito dai radicali come un fulmine a ciel sereno. Non a caso, da lì a poco, successe il finimondo. Esplosero i personalismi e le diffidenze. Eppure, quando venne fuori la notizia di Piccardi, almeno nell’immediato, sembrò un incendio facilmente domabile, pochi compresero che quella rivelazione, invece, avrebbe condotto, da li a poco, allo scioglimento dell’allora gruppo dirigente del Pr. La segreteria - allora composta da Piccardi, Francesco Libonati, Arrigo Benedetti e con Eugenio Scalfari come vicesegretario - si ritrovò a gestire una situazione che era ormai sfuggita di mano. Forse l’incendio covava già da tempo sotto le cenere.
La direzione del partito si dimise in blocco e venne convocato il Consiglio nazionale, che si riunì il 20 gennaio 1962. Da una parte vi era il gruppo di Piccardi, del liberale Bruno Villabruna e di Ernesto Rossi, dall’altra quello di Pannunzio, Mario Paggi, Leone Cattani, Libonati e Carandini. In mezzo, per tentare una improbabile mediazione, si posero Adolfo Gatti, Mario Cagli, Paolo Serini e Scalfari. In una prospettiva aperta si posero i "corsari" guidati da Marco Pannella. Piccardi ed Ernesto Rossi non si presentarono alla riunione del Consiglio per lasciare alle varie possibili mediazioni di trovare uno sbocco che conducesse a riconciliare gli animi e le divergenze. Piovvero parole grosse, i toni si accesero fino all’inverosimile, si parlò di "razzisti" e "fascisti" dentro il Pr. Lo scontro assunse dimensioni drammatiche e sconfinò in gravi incomprensioni personali. Le conseguenze furono inevitabili. Ernesto Rossi smise di scrivere su Il Mondo perché, malgrado tutto, nonostante o in virtù dei tredici anni trascorsi in carcere durante il regime, si sentì in dovere di schierarsi a difesa di Piccardi.
Pannunzio se ne andò dal partito disgustato e sbattendo la porta, ormai stanco di una situazione in cui non si riconosceva più e che, per di più, appariva ai suoi occhi come una realtà degenerata oltre ogni aspettativa e sopportazione. Scalfari lasciò la politica e tornò a occuparsi a tempo pieno di giornalismo. E anche Arrigo Benedetti preferì allontanarsi. La maggior parte dei dirigenti radicali cominciarono a guardarsi intorno: alcuni si avvicinarono ai socialisti, altri presero la strada del Partito repubblicano. Nel giugno del 1962, i radicali si presentarono alle elezioni amministrative di Roma, con una lista capeggiata da Marco Pannella. Presero solo mille voti e non vi furono eletti. E da quei risultati sembrava davvero la fine di un’esperienza. In quel momento, la stampa profetizzò - come era stato per il Partito d’Azione - la scomparsa dei radicali. Nel mese di ottobre, si dimise anche Bruno Villabruna, il segretario. Restavano i giovani, soprattutto. Il gruppo che, ai tempi dell’università, era politicamente cresciuto nell’Ugi e nell’Unuri. E nel dicembre del 1962, si insediò una nuova segreteria composta da Pannella, Luca Boneschi e Vincenzo Luppi. Come presidente, accettò l’incarico lo scrittore Elio Vittorini. Quattordici anni dopo lo storico ingresso in parlamento. Una parabola che fa riflettere.
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