
La crescita senza rigore: illusoria. Il rigore senza crescita: recessivo. Europa (e Italia) la cercano, la crescita virtuosa, ma rischiano di assomigliare al "cavaliere ardito" della poesia di Edgard Allan Poe che cercava l'Eldorado. Diventato vecchio, a un'ombra pellegrina che aveva incontrato chiese dove fosse mai questa terra d'Eldorado. Rispose l'ombra: «Oltre ai Monti della Luna, giù nella Valle delle Tenebre, cavalca, cavalca intrepido se vai in cerca d'Eldorado».
La ricerca della crescita è diventata, non a torto, un'ossessione continentale. Praticamente fino a ieri in Europa si parlava solo di crisi da debiti sovrani e tutti gli accenti, a partire da quello dominante tedesco, si posavano sull'esigenza di tagliare deficit e debiti. Oggi si va affermando la consapevolezza che dobbiamo fare i conti anche con una crisi da mancata crescita se vogliamo rendere, economicamente e socialmente, sostenibili le riforme. La stessa Germania (anche grazie al lavorìo diplomatico di Mario Monti, che con Regno Unito e Olanda aveva promosso a febbraio la lettera alla Ue sulla crescita non sottoscritta da Berlino e Parigi) pare propensa a valutare con più attenzione i progetti pro-sviluppo.
Quanto meno un passo avanti che rompe una catena di soli "no". In Italia, la risoluzione parlamentare allegata al Def e votata alla Camera dalla maggioranza tripolare (Pdl, Pd e Udc) che sostiene il Governo Monti, prevede che le risorse derivanti dalla revisione della spesa pubblica e dalla lotta all'evasione fiscale siano «prioritariamente destinate alla riduzione delle tasse sui redditi da lavoro e d'impresa». Si chiede poi la revisione del Patto di stabilità interno per favorire gli investimenti degli enti locali, un piano straordinario di dismissioni del patrimonio pubblico e l'attribuzione alla Bce (partita questa da giocare in Europa) del ruolo di prestatore di ultima istanza.
Sono tutte proposte che i lettori del Sole 24 Ore conoscono bene, visto che già erano al centro del Manifesto per la crescita lanciato nel luglio 2011. Una risoluzione parlamentare non è un decreto operativo, ma rappresenta un passo politico importante che pressa il Governo dei professori a seguirne gli indirizzi a Roma e a Bruxelles allo stesso tempo. In questo senso suona così come messaggio chiaro: non insistere solo sul pedale del rigore ottenuto a colpi di introiti fiscali e muoviti subito anche per la crescita. E che lo stato dei rapporti tra il Governo e la maggioranza che lo sostiene si sia fatto molto più complesso e difficile lo dimostra il fatto che il Pdl al Senato ha sospeso il giudizio sulla riforma del lavoro. O questa cambia dal lato della flessibilità all'ingresso o il partito potrebbe non votarla. Un altro bivio su un terreno che brucia.
Siamo insomma entrati in una fase delicata di passaggio dove - né in Europa né in Italia - non mancano le insidie. La prima è quella dell'illusione che tutto sia sul punto di cambiare a motivo delle elezioni francesi nel caso di (probabile) vittoria di François Hollande su Nicolas Sarkozy. Su questa svolta si sono appuntate fin troppe aspettative "sviluppiste". Hollande, per capirsi, potrebbe sottoscrivere la lettera Monti-Cameron e spingere per un confronto serrato con Angela Merkel ma non è in grado con la sua vittoria di cestinare il nuovo Patto fiscale europeo (non sottoscritto da Regno Unito e Repubblica Ceca ma già approvato da Grecia, Portogallo e Slovenia) che assieme alle regole del Six-pack e del Two-Pack costituiscono il nocciolo duro della governance europea affidata al principio del pareggio di bilancio. Realisticamente, è poi impossibile ipotizzare il pur auspicabile mutamento genetico della Bce: si dovrebbe passare sul corpo della Germania, che tra l'altro vota l'anno prossimo sull'onda di una richiesta di austerity senza sconti per l'intera Europa.
Inoltre (seconda e forse più pericolosa illusione), giocare sull'antitesi rigore-crescita non porta ad alcun approdo. Servono l'uno e l'altra insieme, non una fase 1 che resta immutabile per definizione o una fase 2 che annulla la prima. Vale per la Francia, vale per l'Italia. E vale per la Gran Bretagna con la sua sterlina e la sua banca centrale modello Federal Reserve americana e non Bce. Londra (rapporto deficit/Pil all'8,3% nel 2011 quarta in classifica dopo Irlanda, Grecia e Spagna) è in recessione "double dip" (recessione con i grafici a forma di W) e come ha notato perfidamente il quotidiano "The Guardian" bisogna tornare indietro di 37 anni al 1975, al tempo in cui Freddy Mercury cantava "Bohemian Rhapsody", per ritrovare una condizione simile.
A Roma i rischi sono doppi. Il primo è che la stessa maggioranza di governo, di nuovo in assetto competitivo reciproco in vista delle elezioni, faccia proprio il metodo "ora basta rigore, via alla crescita" che abbiamo conosciuto in decenni di occasioni mancate di politica economica. Se così fosse, se questa dovesse essere l'interpretazione prima e l'applicazione poi della risoluzione approvata ieri, va detto con chiarezza che torneremmo a correre verso il baratro. I mercati e lo spread si incaricherebbero subito di certificare questa conversione a "U" e saremmo di nuovo esposti a conseguenze gravissime.
Il secondo rischio è che il Governo (secondo i sondaggi in perdita progressiva di consensi) a sua volta non riesca ad uscire da quell'imbuto fiscale nel quale si è spinto fin quasi a negare la sola possibilità di una riduzione della pressione fiscale. Vedremo, in un contesto di economia bloccata anche a motivo delle inadempienze dello Stato nei confronti delle imprese, cosa porterà la famosa "spending review". Ma è chiaro che senza un'aggressione dei problemi dal lato della spesa e senza un parallelo piano di dismissioni del patrimonio pubblico emergeranno solo le cifre tremende messe in fila dalla Corte dei Conti: 206 miliardi di manovra correttiva per il triennio 2012-2014 per oltre il 70% affidata alla componente fiscale.
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