
Ma insomma, chi ha vinto la guerra fredda? Nell’anniversario del crollo del Muro, «fischio finale» della partita, si è aperta una curiosa «querelle» fra politologi. Da autorevoli colleghi abbiamo sentito proclamare che sicuramente «fu la Cina a vincere», mentre «difficilmente può dire di averla vinta l’Europa». Ma perché la Cina, e non l'Indonesia o l'Africa o qualsiasi altro Paese del mondo?
Il fatto è che la caduta del Muro segnò la vittoria di tutto il mondo, compresa, con buona pace di Putin, che assisteva all'evento come funzionario del Kgb in Germania, anche la Russia, che tornò a vivere e a respirare. Ma non si tratta di decidere chi guadagnò di più dalla caduta del Muro e dalla fine dello stalinismo, perché tutti vinsero. Il quesito è un altro: a chi va il merito della caduta del Muro?
Ringraziamo Enzo Bettiza, che ha reso un commosso tributo al vecchio Helmuth Kohl. E teniamoci ai fatti. Ricordiamo che il Muro non era stato fatto per tener fuori i nemici. Non era un muro difensivo. Era il muro di una prigione, costruito per impedire la fuga dei popoli che vi venivano chiusi dentro. Come tale, era anche l'ammissione della superiorità storica del modello capitalista e democratico sul modello sovietico. Quando i popoli rinchiusi in quella prigione, sbirciando oltre il muro un’Europa vincente, ricca e libera, ne ebbero abbastanza della loro Europa perdente, il muro crollò.
Vinse dunque, prima di tutto, l’Europa comunitaria. Vinse anche l'America, grazie all’accorta combinazione di una forte politica militare col saggio appoggio all'unificazione europea. E vinse l'uomo del destino russo, il primo leader post-staliniano, Gorbaciov, che ebbe il coraggio di ammettere che «così non si poteva andare avanti», e di dire ai capi dei Paesi sudditi che se si fossero mai più trovati in difficoltà, come l'Ungheria nel ’56 e la Cecoslovacchia nel ‘68, l’Armata Rossa non sarebbe intervenuta per salvarli.
Quando Gorbaciov mi raccontò come e quando lanciò questo avvertimento - nel giorno stesso della sua elezione a segretario generale del Pcus, davanti a tutti i leader dell’Est - gli chiesi: «Ma le credettero?». La risposta fu secca: «Ne vièrili», non mi credettero. Con questa decisione, maturata nei tanti anni di ascesa al vertice, Gorbaciov non voleva liquidare né il comunismo né l'Unione Sovietica. Pensava, sbagliando, perché la crisi del sistema era molto più profonda di quanto immaginasse, che sacrificando i «Paesi satelliti», facendo la pace con l'Occidente, e ponendo fine a una corsa agli armamenti che l'economia sovietica malata non poteva più reggere, avrebbe salvato il Paese che amava, il solo regime che conoscesse e in cui ancora credeva, nonostante i nonni contadini suoi e di Raissa vittime delle purghe staliniane.
Ma poi, fu davvero un errore, il suo, o piuttosto una istintiva, storica intuizione, l'oscura consapevolezza che bisognava cambiare, accadesse poi quel che doveva accadere?
Quanto all’Europa unita, ha già fatto tanta strada. Con buona pace di quei tanti che, delusi nel loro sogno federalista, o per oscure impazienze, non riescono a non parlar male dell’Europa. Sia quando barcolla prima di approvare una nuova costituzione, sia quando finalmente l'adotta, ma con mille ovvie incertezze sulla strada che le si apre davanti. L’Europa rimane pasticciona ma vincente. Veniamo da lontano. Dai campi impregnati di sangue di Verdun. Dalle città distrutte della Seconda guerra mondiale. Dai forni crematori di Auschwitz. Dai totalitarismi trionfanti. La memoria di ciò che fummo ci spingerà ad andare molto più avanti. Diamoci tempo.
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