
Quando stamattina sfogliando il Corriere della Sera Pierluigi Bersani è arrivato a pagina 8, ha capito che doveva reagire. No, la "Riforma all'ungherese ", come recitava il titolo, no.
L'Ungheria non ha mai portato bene e probabilmente il segretario del Pd si è chiesto, con sentimenti poco amichevoli, chi fosse stato il sapientone che aveva soffiato alla giornalista il dotto parallelo. Così il segretario del Pd ha tenuto a precisare subito che la proposta di riforma elettorale del suo partito, elaborata dal compagno/amico Bressa, non è «né ungherese né turca ma italiana», tanto per cominciare. E comunque qualcosa va pur fatto per cambiare la attuale legge elettorale che, anche secondo chi l'ha fatta, è una porcata. Bersani ha fatto benissimo ma non riuscirà a impedire che il dibattito politico ritorni sulle montagne russe dei vari possibili sistemi elettorali. Ne sentiremo di tutti i colori.
Un mio collega è capace di discettare per un'ora sulle differenze fra il sistema tedesco e quello giapponese. Solo che dopo dieci minuti tutti lo lasciano solo. L'argomento appassiona le masse assai meno dei politologi. In fondo le possibilità sono due: il maggioritario puro, dove il mandato degli elettori è praticamente vincolante ma i partiti sono pochissimi, o il proporzionale puro, dove tutti sono rappresentati ma chi governa non lo decide l'elettore. In mezzo ci sono infinite sfumature. Trovare quella giusta è questione di autorevolezza e capacità di convincere. E questo è un problema.
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