
Ora che in sede Aiea Russia e Cina hanno aderito alla linea dura occidentale nei confronti dell’Iran (chiudere il sito nucleare di Qom), la prospettiva di un rafforzamento delle sanzioni verso il regime iraniano si fa più probabile, anche se non necessariamente certa. Molto dipenderà infatti dall’atteggiamento di Pechino, ammesso e non concesso che Mosca mantenga ferma la sua posizione anche in Consiglio di Sicurezza Onu.
Proprio una simile eventualità lascerebbe Pechino di fronte a un delicato dilemma o, più prosaicamente, con il classico cerino in mano. Consentire che siano adottate sanzioni nei confronti di Teheran, tanto più se queste dovessero prima o poi toccare il settore degli idrocarburi, sarebbe estremamente doloroso per Pechino. Alla Cina sempre più assetata di energia fanno decisamente gola il gas e il petrolio iraniani. Pechino ha recentemente firmato un contratto cinquantennale con l’Iran per la fornitura di gas e guarda con favore alla realizzazione del «gasdotto dell’amicizia», che collegherebbe Iran, Pakistan e India, che auspica possa essere successivamente esteso allo Xiang. Non solo. La Cina si sta muovendo con vigore in tutta l’Asia centrale: a iniziare dai Paesi Sco (Uzbekistan e Kazakistan soprattutto), che costituiscono consistenti mercati di sbocco dei propri prodotti commerciali, per finire con lo stesso Afghanistan, dove sta realizzando discreti ma importanti investimenti.
D’altra parte, se Mosca dovesse mantenere l’allineamento con l’Occidente, e Pechino decidesse invece di sfilarsi, minacciando più o meno esplicitamente l’impiego del suo diritto di veto contro un eventuale inasprimento delle sanzioni a Teheran, la Cina si ritroverebbe di fatto isolata.
Cioè proprio in quella posizione che ha accuratamente cercato di evitare negli ultimi trent’anni di accorta politica estera (cioè dai tempi della svolta di Deng). Qualcuno forse ricorderà che, persino in occasione della guerra del Kosovo, i cinesi furono abilissimi nel mettere insieme in Consiglio di Sicurezza una coalizione ostile al conflitto che comprendeva Brasile e India, che mentre evitava a Pechino di esporsi in maniera solitaria impediva comunque che la questione di una copertura Onu alla guerra della Nato potesse neppure approdare all’ordine del giorno. In questo caso, oltretutto, Pechino potrebbe veder vanificati anni di lavoro volti ad accreditare la Cina come un responsabile membro della comunità internazionale, e proprio su una questione, come quella della proliferazione nucleare, decisiva per la sopravvivenza non meramente retorica del concetto stesso di comunità internazionale.
Sarebbe un risultato paradossale, tanto più che Pechino ha un interesse anche «individuale» alla tenuta del trattato di non proliferazione. Tutte le sue violazioni, acclarate o sospette, realizzate o in fieri (Israele, India, Pakistan, Nord Corea e Iran), hanno infatti riguardato l’Asia, cioè la regione «di casa» della Cina. Il rischio che un’eventuale sfida iraniana rilanci quella nordcoreana, con effetti a catena sul quadro regionale (dalla Corea del Sud al Giappone), rappresenterebbe un serio ostacolo alle ambizioni di Pechino di legittimare il proprio ruolo crescente in Asia e nel sistema internazionale, costringendola per di più a distrarre attenzione e risorse dagli assi strategici della politica estera ed economica. Infine, Hu è consapevole di dover concedere qualcosa di concreto a Obama, se vuole favorirne il ruolo di possibile mediatore tra Europa e Cina sulle questioni climatiche, altrimenti il sogno del G2 rischia di trasformarsi in un miraggio prima ancora di aver preso concretamente vita.
Ma sarebbero efficaci nuove sanzioni per convincere l’Iran a più miti consigli? Dipende. Per il momento Ahmadinejad procede con le sue pericolose smargiassate, minacciando di aprire altri 10 nuovi siti, di incrementare dal 3,5% al 20% l’arricchimento dell’uranio iraniano, e di cessare ogni «collaborazione» con la Aiea. Al di là della sicurezza esibita, però, probabilmente inizia a rendersi conto dell’occasione che si è lasciato sfuggire rifiutando l’ultima proposta del sestetto, che avrebbe consentito di salvare la faccia a tutti, all’Iran e alle grandi potenze, con un compromesso che, comunque, avrebbe costituito la tacita accettazione internazionale della svolta autoritaria in politica interna imposta al regime degli ayatollah dal presidente iraniano. Ora Ahmadinejad si trova di fronte a un diktat che, comunque decida di rispondere, sia che si pieghi sia che tenga duro, potrebbe indebolirlo, dando spazio e fiato all’opposizione interna. Non tanto quella delle piazze e dell’«Onda verde», quanto a quella tecnocratica e dei bazarì che si raccoglie intorno a Rafsanjani: cioè proprio quella più pericolosa per lui.
© 2009 Radicali italiani. Tutti i diritti riservati