
Non sorprende che il presidente del Consiglio abbia difeso il suo sottosegretario Catricalà con l'unico tono che era possibile usare in questa circostanza: fermo e definitivo. La "copertura" da parte di Monti è totale, un mantello protettivo che equivale alla conferma della fiducia.
Del resto, al punto in cui erano giunte le cose in relazione alla polemica sul Csm, Catricalà non avrebbe avuto altra strada che le dimissioni, se il premier non avesse parlato. Ma Monti ha parlato, appunto, e allora le incomprensioni e gli equivoci dei giorni scorsi risultano cancellati. Ha prevalso la "ragion di Stato", perché una crisi nella struttura di vertice di Palazzo Chigi è qualcosa che non ci si può permettere in questo momento.
I compiti assegnati a Catricalà sono troppo delicati per immaginare che una sua uscita di scena non avrebbe contraccolpi sul delicato equilibrio tecnico-istituzionale su cui si regge l'impianto del governo. Certo, le ferite ci metteranno un po' di tempo a rimarginarsi. Ma la strada scelta da Monti è la più realistica: qualsiasi altra avrebbe messo in luce i punti deboli del governo e ne avrebbe di fatto minacciato la stabilità.
Quindi la scelta è stata di puntellare l'equilibrio, senza scossoni o colpi a effetto. In un governo di partiti probabilmente le cose sarebbero andate in modo diverso, ma questo è un esecutivo che risponde a logiche peculiari: i contrasti intestini non hanno uno sfogo sul piano politico e si risolvono in conflitti anche duri, ma sempre all'interno dei "palazzi". E diventa difficile spostare qualche tassello, soprattutto quando è rilevante, come nel caso del sottosegretario alla presidenza.
È una situazione che vale oggi e varrà nei prossimi mesi, via via che ci avviciniamo alle elezioni politiche. Ci si dovrà muovere con crescente circospezione. E se è vero per il premier, a maggior ragione è vero per i partiti. Il clima da pre-campagna elettorale favorisce l'immobilismo e certo non incoraggia l'attività riformatrice. Correggere la Costituzione in questa atmosfera, quando non si è riusciti a farlo nei primi quattro anni della legislatura, sembra un'impresa un po' troppo ambiziosa. Sulla carta sarebbe ancora plausibile la riforma della legge elettorale nella chiave del doppio turno alla francese. Ma è singolare che gli sforzi dei due maggiori partiti vadano in tutt'altra direzione.
Berlusconi, introducendo il diversivo del semi-presidenzialismo, dimostra di non guardare con interesse alla modifica dell'attuale "porcellum". E Bersani, dal canto suo, lasciando filtrare le indiscrezioni sull'ipotesi di una "lista civica" da affiancare alle liste ufficiali del Pd, lascia capire che si sta già attrezzando per andare a votare nel 2013 con l'attuale legge. Infatti la lista civica ha un senso, non tanto con l'eventuale doppio turno, quanto con il "porcellum", nel tentativo di drenare voti da Grillo, sì, ma anche dalla coppia Vendola-Di Pietro. Il che induce a dire che i due alleati tutti i torti non li hanno, dal loro punto di vista, nel chiedere chiarezza a Bersani. Stretti fra Grillo, da un lato, e la possibile lista civica, dall'altro, rischiano di subire un mezzo salasso elettorale. Bersani, senza darlo troppo a vedere, sta sfumando la famosa foto di Vasto. E lo fa riscoprendo una qualche forma di "vocazione maggioritaria" adeguata alle circostanze. La lista civica avrebbe in fondo l'obiettivo di rafforzare la centralità del Pd rispetto ai due partiti minori della coalizione. In fondo ancora una volta i maggiori partiti, Pdl e Pd, hanno interesse a mantenere lo "status quo".
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