
I partiti italiani tentano di prefigurare gli scenari del nostro futuro, ma l’impressione è che il gioco del potere sia ormai sfuggito di mano alla classe politica. Bersani cerca di ricostruire un centrosinistra senza i difetti che fecero tramontare l’esperienza governativa di Prodi. Berlusconi, annunciando il suo sesto ritorno in campo, vuole impedire al leader democratico una vittoria con una grande maggioranza parlamentare. Casini spera di acquisire una posizione che possa condizionare entrambi gli schieramenti. Mosse e contromosse che, spostando lo sguardo verso un orizzonte lontano, vorrebbero mascherare la consapevolezza di quello vicino, quello che vede tutte le decisioni che conteranno nel futuro degli italiani fuori dall’arco delle Alpi. Verdetti che arriveranno da Francoforte e da Bruxelles, da Berlino e, magari, addirittura dalla Finlandia.
Decisioni che potranno essere condizionate persino dall’esito delle elezioni americane di novembre. Con un unico interlocutore italiano ammesso al tavolo di quelle decisioni, il premier Monti.
Durata poco più di una notte di mezz’estate l’ipotesi di elezioni anticipate, acclarata l’impossibilità di trovare un’intesa sulla nuova legge elettorale prima dell’autunno, i partiti italiani hanno cominciato una campagna elettorale del tutto «autistica». Una partita completamente isolata dalle attuali preoccupazioni degli italiani e che li vede guardare ai saliscendi dello spread, alle battaglie sulla sopravvivenza dell’euro, alle sfide dei mercati finanziari nei confronti delle potestà degli Stati come semplici spettatori. Consapevoli di un ruolo che consente il diritto di tifare, ma non quello di partecipare all’incontro.
L’esproprio di sovranità di cui si discute in Europa, tra le insistenze della Merkel e le resistenze di Hollande, in realtà, è già avvenuto in Italia. Con una differenza fondamentale: l’attiva e determinante complicità di una classe politica che non è stata estromessa dal ruolo, ma che ha abdicato volontariamente al ruolo che le competeva. Riconoscendo l’incapacità a sostenerlo, con quella autorevolezza e con quella credibilità necessarie durante la più grave crisi europea dopo la seconda guerra mondiale.
In attesa di sapere se Monti riuscirà a convincere i Paesi «virtuosi» dell’Eurozona sull’efficacia e, soprattutto, sull’irreversibilità della linea di rigore finanziario da lui impostata in Italia; in attesa di conoscere l’esito dello scontro tra Draghi e la banca tedesca; in attesa del contestato varo del fondo «salva-Stati»; in attesa di vedere se il nostro spread sopravviverà alle tempeste borsistiche di agosto, dove guardano, adesso, i partiti italiani?
La risposta è ovvia: alle elezioni della primavera 2013. Vero, ma anche ad altre elezioni, più vicine, di cui meno si parla, ma che costituiranno le prove generali della sfida per la prossima legislatura, quelle siciliane di ottobre. E’ lì che Berlusconi, nel ricordo di un successo storico, verificherà la forza del suo residuo fascino elettorale. Nell’isola si proverà quel matrimonio di necessità tra Bersani e Casini che l’accordo con Vendola, proclamato ieri, rende così arduo e, forse, improbabile. A quell’appuntamento sono appese le speranze di Di Pietro, stretto tra i rifiuti all’alleanza, sia di Grillo, da una parte, sia di Bersani e Vendola, dall’altra.
Alla luce del verdetto siciliano potrebbe anche sbloccarsi lo stallo sulla nuova legge elettorale che, al di là delle pseudo tecnicalità, si fonda su un contrasto esclusivamente politico. La paura del probabile candidato premier del centrosinistra, Pierluigi Bersani, di non ottenere una maggioranza sufficiente a governare e, quindi, la volontà di avere un premio elettorale che non sia assegnato al primo partito, ma alla coalizione vincente. Al contrario, il desiderio di Berlusconi e del Pdl di impedire il trionfo dello schieramento avversario e, perciò, di poter contare su un risultato così precario da non rendere l’opposizione di centrodestra ininfluente.
Possono essere comprensibili, allora, le preoccupazioni per le sorti di una democrazia italiana svuotata dal potere dei partiti, unici legittimati dalla Costituzione a rappresentare la volontà popolare. Possono essere opportune le accuse al cosiddetto «pensiero unico», quello che sostiene sempre e comunque le scelte del governo tecnico, perché senza la libertà e l’autonomia della critica pubblica alle decisioni che coinvolgono interessi rilevanti dei cittadini, la democrazia non è solo svuotata, ma addirittura compromessa. Ma ci si deve chiedere perché possa essere così forte il dubbio che, in questo momento, la perdita di quel potere da parte dei partiti sia più un bene che un male.
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