
07/05/10
Libero
Non ho mai capito l’avversione verso Carlo Petrini. Da gente di destra, poi. Se in Italia c’è un conservatore questo è l’inventore di Slow Food,la cui unica colpa è quella di avere scelto, del tutto
incongruamente, un nome anglofono per un movimento enogastronomico più localista di una sezione Lega Nord in Val Brembana. Petrini ha molto dell’abate, del monaco, ma non di quei monaci golosi e porcelloni che vivevano in un Medio Evo al contempo di grande fede e grande peccato.
No, nonostante il gran scrivere di bottiglie e di osterie Petrini è uomo molto sobrio, forse anche troppo. Io lo vorrei un tantino più gaudente, un filino meno piemontese (lo dico sperando di non dispiacere gli amici in zona: non sono stato io ma il torinese Guido Ceronetti a scrivere che «la provincia piemontese ilare non è mai stata»). Ha fondato Slow Food come si fonda un ordine religioso e i suoi seguaci sono entrati in Slow Food come si entra in un ordine religioso: il voto di castità non è richiesto ma quelli di povertà e ubbidienza sì.
L’esempio lo dà lui, Petrini, che sarà un guru ma non ha costumi da santone indiano, non colleziona Rolls Royce. Secondo me chi lo critica sotto sotto gli preferisce l’altro gran personaggio nativo di Bra, Emma. Bonino. Lei sì progressista, col suo impegno totale a favore dell’entropia (come se la morte, la decadenza, la rovina avessero bisogno dell’aiuto umano per realizzarsi nella storia). Al contrario l’uomo del cibo lento si è prefisso di salvare il mondo o quantomeno il nostro caro vecchio gustosissimo mondo, conservando per le generazioni future sapori e razze, specie e ricette. «Questi saperi gastronomici danno piacere organolettico e anche intellettuale perché sono il simbolo di una cultura identitaria». E’ una citazione tratta dal suo Buono, pulito e giusto ma potrebbe essere un passaggio di Adottare la terra di Luca Zaia, ho letto entrambi i libri e lo spirito è identico.
Petrini leghista? Macché: Petrini territoriale, questo sì. E come ogni vero patriota ama tutte le patrie, non solo la sua, piemontese o italiana che sia. Petrini è riconosciuto in tutto il mondo come il paladino delle produzioni tradizionali, è lui stesso un magnifico prodotto da esportazione, è arrivato fino in Uzbekistan per salvare le loro vecchie varietà di mandorle, in Bolivia difende le colture di noce amazzonica e in Svezia si batte perché i sami o i lapponi o come caspita si chiamano possano continuare ad allevare renne, siccome anche lassù incombono globalizzazione e hamburger.
Io forse non avrei mai gustato il meraviglioso, supersucculento fassone, carne bovina di razza piemontese, se Slow Food non l’avesse rilanciata e imposta all’attenzione dei ghiottoni autoctonisti. Petrini è uno dei nostri, datemi retta.
incongruamente, un nome anglofono per un movimento enogastronomico più localista di una sezione Lega Nord in Val Brembana. Petrini ha molto dell’abate, del monaco, ma non di quei monaci golosi e porcelloni che vivevano in un Medio Evo al contempo di grande fede e grande peccato.
No, nonostante il gran scrivere di bottiglie e di osterie Petrini è uomo molto sobrio, forse anche troppo. Io lo vorrei un tantino più gaudente, un filino meno piemontese (lo dico sperando di non dispiacere gli amici in zona: non sono stato io ma il torinese Guido Ceronetti a scrivere che «la provincia piemontese ilare non è mai stata»). Ha fondato Slow Food come si fonda un ordine religioso e i suoi seguaci sono entrati in Slow Food come si entra in un ordine religioso: il voto di castità non è richiesto ma quelli di povertà e ubbidienza sì.
L’esempio lo dà lui, Petrini, che sarà un guru ma non ha costumi da santone indiano, non colleziona Rolls Royce. Secondo me chi lo critica sotto sotto gli preferisce l’altro gran personaggio nativo di Bra, Emma. Bonino. Lei sì progressista, col suo impegno totale a favore dell’entropia (come se la morte, la decadenza, la rovina avessero bisogno dell’aiuto umano per realizzarsi nella storia). Al contrario l’uomo del cibo lento si è prefisso di salvare il mondo o quantomeno il nostro caro vecchio gustosissimo mondo, conservando per le generazioni future sapori e razze, specie e ricette. «Questi saperi gastronomici danno piacere organolettico e anche intellettuale perché sono il simbolo di una cultura identitaria». E’ una citazione tratta dal suo Buono, pulito e giusto ma potrebbe essere un passaggio di Adottare la terra di Luca Zaia, ho letto entrambi i libri e lo spirito è identico.
Petrini leghista? Macché: Petrini territoriale, questo sì. E come ogni vero patriota ama tutte le patrie, non solo la sua, piemontese o italiana che sia. Petrini è riconosciuto in tutto il mondo come il paladino delle produzioni tradizionali, è lui stesso un magnifico prodotto da esportazione, è arrivato fino in Uzbekistan per salvare le loro vecchie varietà di mandorle, in Bolivia difende le colture di noce amazzonica e in Svezia si batte perché i sami o i lapponi o come caspita si chiamano possano continuare ad allevare renne, siccome anche lassù incombono globalizzazione e hamburger.
Io forse non avrei mai gustato il meraviglioso, supersucculento fassone, carne bovina di razza piemontese, se Slow Food non l’avesse rilanciata e imposta all’attenzione dei ghiottoni autoctonisti. Petrini è uno dei nostri, datemi retta.
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