
L’improvviso e pressante interesse dell’opinione pubblica per il destino della Siria è durato molto poco. A voler essere precisi, è durato il tempo intercorso tra il giorno in cui gli Stati Uniti hanno detto che bisognava occuparsi delle atrocità che stavano accadendo in Siria e il giorno in cui la prospettiva di un intervento statunitense è stata accantonata. Non prima, durante un momento qualsiasi dei due anni di guerra civile che hanno portato alla morte di centomila persone e hanno creato due milioni di rifugiati. Non dopo, quando un accordino impraticabile ha sostanzialmente permesso la prosecuzione della guerra garantendo alle parti in causa di preservare lo status quo senza perdere la faccia.
Forse è accaduto per la facilità con la quale ci muoviamo dentro schemi che ci sono familiari e che quindi fanno scattare riflessi condizionati comodi e rituali: per esempio il cliché liceale delle proteste contro la potenza americana imperialista e colonialista, anche quando non si tratta di iniziare una guerra, bensì di fermarla. Forse è accaduto perché l’opinione pubblica italiana è già così stremata dalle sue sofferenze che l’idea di dedicare risorse e attenzioni a quelle di altre persone così lontane, per quanto infinitamente più gravi, non ha trovato spazi, non ha trovato aria. Forse è accaduto perché un eventuale intervento ci avrebbe riguardati direttamente - le basi militari, i soldi, lo spazio aereo, eccetera - molto più di quanto ci riguardi di per sé la guerra civile in Siria, ed è noto che la politica estera diventa importante solo quando si sovrappone alla politica interna (la scorsa estate, ricorderete, a un certo punto per 15 giorni molti si sono scoperti improvvisamente interessati delle sorti di un dissidente politico del Kazakistan).
In fondo non importa: importa che è accaduto. È accaduto, per esempio, che la sola eventualità di un attacco militare in risposta a un massacro abbia ottenuto più attenzione del massacro, dell’attacco, quello vero, nel quale il 21 agosto centinaia, forse migliaia di persone sono davvero state uccise - peraltro uccise da armi messe al bando, letali al punto che pensavamo che nessuno le avrebbe più usate. È accaduto anche che salvo poche eccezioni l’attacco del 21 agosto sia stato raccontato sui giornali dopo le dieci quotidiane irrinunciabili pagine piene di politica - e chissà se non ci fossero state le orribili fotografie dei bambini morti -, mentre la sola minaccia statunitense contro gli autori dell’attacco chimico si sia guadagnata giorni di titoloni. È successo che si sia improvvisamente promosso un grande e contrito digiuno collettivo contro la guerra a due anni dall’inizio della guerra.
Dopo aver passato anni a ripetere un altro luogo comune, quello per cui la democrazia bisogna volerla, non si può esportare, va conquistata, abbiamo pensato che la guerra tra un regime crudele e violento e un movimento laico e democratico non ci riguardasse, non riguardasse cose come l’universalità dei diritti umani, la fratellanza internazionale, l’umanitarismo: loro sono siriani, noi no, facessero da soli, se ci riescono. Siamo rimasti di quell’idea, disinteressata e immobile, quando il regime ha schiacciato i ribelli di Aleppo e ha ridotto all’irrilevanza quelli che semplificando brutalmente potremmo definire "i buoni"; quando la guerra in Siria è diventata una guerra regionale, attirando milizie e armi dall’Iran, dal Libano, dai gruppi di Al Qaeda; quando i cosiddetti "buoni", abbandonati e massacrati, sono stati costretti a scegliere tra cercare aiuti e risorse dagli islamisti di AI Qaeda o farsene eliminare.
Fino ad arrivare a oggi, quando col tono di quelli che la sanno lunga, che hanno visto il mondo, diciamo che in Siria è un casino, che intervenire è inutile: non ci sono i buoni, i ribelli sono divisi, nessuna delle parti merita il nostro sostegno. Il contesto è cambiato, gli argomenti si sono adeguati, la posizione rimane la stessa: loro sono siriani, noi no, facessero da soli, se ci riescono. L’argomento per cui i ribelli non sono proprio belli e pettinati come ci piacerebbe è fuorviante e sfacciato: non solo perché la comunità internazionale ha enormi responsabilità su quanto accaduto ai ribelli, ma anche perché prima che tra il regime e i ribelli dovremmo scegliere se intendiamo stare con chi ammazza o con chi viene ammazzato. Con una delle due parti della guerra o con i disgraziati in mezzo, i centomila morti e i loro cari, i due milioni di persone che sono già scappati e quelli che lo faranno.
C’è un film molto bello girato nel 2001 da un regista bosniaco e ambientato durante la guerra tra Serbia e Bosnia nel 1993. Si chiama No Man’s Land, è piccolino ma vinse una montagna di premi tra cui l’Oscar. Racconta con leggerezza e insieme profondità storie di guerre complicate e di ancora più complicate responsabilità internazionali. A un certo punto la protagonista, esasperata per la rivendicata inutilità della forza di interposizione dell’Onu, dice una verità banale e assoluta: «Non esiste neutralità davanti all’omicidio. Non fare niente per fermarlo è, a tutti gli effetti, scegliere da che parte stare». Se tre persone menano un tizio sul marciapiede davanti al tuo e tu ti tiri dritto, non sei neutrale: hai deciso da che parte stare (se la cosa non ti convince, prova a metterti nei panni del tizio che chiede aiuto). Scegliendo di non scegliere, in Siria, abbiamo deciso da che parte stare.
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