
23/09/10
Corriere della Sera
Nessuna luce è stata ancora accesa per impedire l'esecuzione di Teresa Lewis in Virginia. Ahmadinejad ha avuto la sfrontatezza di rinfacciare il suo caso alla comunità internazionale che aveva protestato per la lapidazione di Sakineh. Ma la battaglia contro la pena di morte è troppo importante per lasciarsi intrappolare dalle furbizie dell'autocrate iraniano. È giusto farsi sentire adesso, fino a che una sola speranza può impedire l'iniezione letale. È davvero paradossale che il caso di Teresa Lewis, la donna minata da forti disturbi mentali e condannata per aver indotto l'amante a uccidere il figlio e il figliastro, si sia imposto sulla scena internazionale sulla scia della parole di Ahmadinejad. E la colpa del movimento per l'abolizione della pena capitale è quella di suscitare un'attenzione solo episodica sulle vicende dei condannati a morte in America.
Attraversando tortuosi e indecifrabili itinerari psicologici e mediatici, alcuni casi sono seguiti con allarme e apprensione: le piazze del mondo si mobilitano, si illuminano i monumenti più famosi che fanno da scenario di veglie e fiaccolate, si moltiplicano appelli e petizioni, si firmano manifesti, si organizzano concerti e sit-in. In altre occasioni, come questa, cala il silenzio, domina la disattenzione, l'indifferenza, addirittura il fastidio per notizie moleste e ripetitive.
Si esulta quando l'Onu, anche grazie alla tenacia internazionale dei radicali italiani, si pronuncia per una «moratoria» della pena di morte. Ma non si vigila sull'applicazione di quei princìpi, si considera normale che in Virginia venga uccisa con il sigillo dello Stato una donna tormentata da una grave instabilità psichica. E si lascia ai lapidatori di Teheran il compito di ricordare alle democrazie del mondo che, purtroppo, la pena di morte non è una prerogativa dei sistemi più simili a quello iraniano. Ma se la colpevole disattenzione dell'opinione pubblica democratica appare sconcertante, appare davvero ridicolmente pretestuoso l'accostamento che Ahmadinejad suggerisce tra il sistema iraniano e quello americano. La pena di morte rappresenta un orrore, sempre.
Ma le atroci discussioni a Teheran sulla realizzazione «tecnica» della lapidazione (la condannata viene sepolta fino alla testa o le pietre possono raggiungere anche il busto della lapidata?) sono una specialità vergognosa che rendono il caso iraniano imparagonabilmente più feroce di quello americano. Così come le impiccagioni sulla pubblica piazza. Così come la lapidazione delle donne, condannate per reati «morali» di gran lunga meno gravi di quello commesso da Sakineh. Così come l'uso della tortura in carceri spaventose dove sono violati sistematicamente i più elementari diritti umani. Così, come l'inesistenza assoluta di ogni parvenza di Stato di diritto, con gli imputati che non possono difendersi, gli avvocati imbavagliati, le procedure stracciate, le garanzie cancellate del tutto. La forca e la lapidazione sono due elementi essenziali della scena politica di Teheran. I corpi degli impiccati che penzolano nel vuoto sono usati come immagine di terrore che dovrebbero convincere gli iraniani a non ribellarsi al loro regime.
C'è una frontiera morale e politica tra l'autoritarismo iraniano e la democrazia americana che non può essere sbriciolata da analogie usate come arma di ricatto morale per far cadere l'Occidente democratico in contraddizione con se stesso e con i princìpi che professa. Ma sono proprio i democratici che dovrebbero neutralizzare la beffa di Ahmadinejad: opponendosi, sempre, ai sistemi feroci e disumani di Teheran, e manifestando, sempre, contro la pena di morte ancora operante nella democrazia americana. Sempre, non a singhiozzo, o a seconda delle circostanze e delle convenienze. Indignarsi quando le forche vengono allestite sulle pubbliche piazze di Teheran o viene inscenato il macabro spettacolo della lapidazione (oltre a Sakineh, sono almeno sette le previste prossime esecuzioni di condannati a morte in Iran). E non smettere mai di richiedere la «moratoria» sulla pena di morte siglata dalle Nazioni Unite. Anche a Washington dove c'è la libertà di manifestare il proprio dissenso. A Teheran no: la differenza è tutta qui.
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