
Dopo qualche giorno di cielo terso, Pechino è avvolta da una densa nebbia dal sapore acre.
Offusca i contorni dei palazzoni da 40 piani e più, ritarda arrivi e partenze degli aerei, appanna le luci delle automobili, confonde i profili delle persone che camminano per strada di giorno o di notte, ed entra ovunque, fin dentro il cuore politico della capitale, Zhongnanhai, la Casa Bianca cinese.
È con questa nebbia nel cuore e ancor più nei polmoni che i leader cinesi ieri hanno annunciato il loro piano di battaglia per la conferenza di Copenhagen sull’ambiente: entro il 2020 taglieranno le emissioni da carbone del 40-45 per cento rispetto ai livelli del 2005. Il premier Wen Jiabao sarà presente al summit per sottolineare l’impegno del Paese.
È una promessa mastodontica per la Cina, che fino a ieri ancora sembrava prendere le misure sui tagli all’inquinamento. È un segnale industriale e politico all’America che solo il giorno prima annunciava per il 2020 riduzioni delle emissioni di gas serra intorno al 17% rispetto ai valori del 2005 e dell’83% entro il 2050.
Ma si tratta di un messaggio forte anche ad altri Paesi in via di sviluppo, India in testa, che finora sono stati più restii a mettere nero su bianco una politica di tagli all’inquinamento.
L’annuncio di Pechino fa seguito alle dichiarazioni cinesi dei giorni scorsi che chiedevano misure concrete per Copenhagen, non solo accordi di circostanza. La spallata cinese, insieme al nuovo impegno americano, dovrebbe dare un forte impulso alla conferenza, dove, fino a ieri, pochi speravano si potesse raggiungere un accordo effettivo. A Pechino spiegano che si tratta di un impegno politico importante per il presidente Usa Barack Obama. Da mesi la Cina è impegnata a cercare di dare una mano al successo della presidenza americana e l’ambiente è una delle due gambe su cui si sono mosse le promesse elettorali di Obama.
«Sull’altro dossier importante, quello della riforma sanitaria, non possiamo fare niente, ma sull’ambiente ci impegniamo», spiegava un alto funzionario cinese.
Non si tratta certo solo di altruismo per la Cina. I tagli all’inquinamento sono parte di una politica mossa con decisione per arrivare a grossi risparmi dei consumi di energia. Parte di questa strategia è l’acquisto da parte cinese di tecnologie ambientali di origine americana. Tali tecnologie dovrebbero consentire di raggiungere un altro obiettivo cinese, quello di produrre il 15% di energia primaria da fonti non fossili.
Inoltre, cinesi e americani hanno costituito un piano di ricerche congiunte sul carbone, per migliorarne l’efficienza e abbattere l’inquinamento. La Cina produce dal carbone circa il 70% della sua energia e l’America oltre il 50%.
In concreto la Cina ha già promesso di riportare entro il 2010 il livello di consumo di energia medio per produrre 1.000 yuan di prodotto interno lordo ai livelli del 2005. Tali innovazioni dovrebbero contribuire quanto meno a ridurre l’aumento di richiesta di petrolio, e quindi a calmierarne i prezzi globali, ma poi le nuove tecnologie dovrebbero migliorare complessivamente la qualità dell’industria cinese.
Inoltre, per il 2020 il Paese si è impegnato a piantare 40 milioni di ettari di nuove foreste, rispetto al 2005, uno spazio grande quasi quanto il 15% del territorio italiano.
In particolare nella provincia del Guangdong, la base della nuova industria cinese, il governo ha imposto alle 200 maggiori città e alle 200 maggiori imprese, di migliorare l’efficienza energetica del 20% entro l’anno prossimo.
Già quest’anno la Cina è diventata il maggiore mercato al mondo di turbine a vento, superando l’America.
Allo stesso tempo però emergono nuove fonti di inquinamento. Quest’anno l’aumento delle vendite di automobili potrebbero essere di oltre il 70%, portando con certezza la Cina a essere il primo mercato al mondo nel settore. Qui poi la gran parte delle auto sono di grossa cilindrata, a benzina e quindi con grandi consumi.
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