
«Non possiamo ignorare i diritti umani durante un evento sportivo», dice Vivien Reding, vicepresidente della Commissione Ue. Giusto. «Quando vengono violati i diritti e i principi democratici lo sport non può voltarsi dall'altra parte», dice Piero Gnudi, ministro dello sport. Sacrosanto. Solo che lo sport e la politica - e magari tutti e due assieme appassionatamente - hanno ignorato e si sono voltati dall'altra parte in tante occasioni. E andando appena a ritroso si può cominciare con i Giochi di Pechino 2008. Boicottare contro il Paese che ha il record del mondo di esecuzioni, di dissidenti imprigionati, di diritti negati, di comunità, come quella tibetana, sottoposte alla legge marziale? Tutto il contrario. Gli atleti furono costretti a firmare una dichiarazione: non avrebbero dovuto manifestare sul podio e nei luoghi di gara, non avrebbero dovuto esprimere opinioni sulla Cina. Boicottarono le idee, la libertà.
Era già capitato ne11936 quando Avery Brundage (più tardi, a lungo, troppo a lungo, presidente del Cio), dopo esser stato inviato in missione nella Berlino pre-olimpica, tornò negli Usa dicendo che là tutto andava per il meglio e che il governo di Hitler era il migliore che la Germania potesse sognare. Del periodo che precede la Seconda guerra mondiale esiste anche un'altra testimonianza, una fotografia della nazionale di calcio inglese con il braccio teso nel saluto nazista: si giocava a Berlino, un fatto di educazione, disse qualcuno. Padroni dello sport e padroni del potere politico ignorarono e voltarono le spalle anche nel '68 quando, a una settimana dall'inizio dei Giochi di Mexico City, i granaderos e le squadre di killer di stato mitragliarono una pacifica manifestazione di studenti e lavoratori in Piazza delle Tre Culture. Volevano pane e lavoro, denunciavano le spese faraoniche per le Olimpiadi in un Paese disperatamente povero, governato con brutalità. Cinquecento morti, fatti sparire velocemente: la cerimonia d'apertura incombeva.
Molti ricordano il boicottaggio Usa contro Mosca '80 e la ritorsione della sfera socialista, quattro anni dopo, a Los Angeles. Appena prima, nel turbinare degli anni Settanta, due gesti ebbero altri contenuti e valori. Il primo investì i Paesi africani alla vigilia dei Giochi di Montreal '76. Tanzania e Congo interpretarono il ruolo di portavoce: «Perché gli All Blacks neozelandesi possono giocare con il Sudafrica che pratica la più selvaggia delle apartheid contro i nostro fratelli, che imprigiona, sequestra, tortura? Sospendete la Nuova Zelanda e tutto sarà risolto». Ma il Cio ignorò, la Nuova Zelanda non fu invitata ad andarsene e 33 Paesi africani rifiutarono di gareggiare: «Per noi contano più i principi che le medaglie», disse un atleta ripartendo dal Canada.
E due anni dopo, nel '78, venne il boicottaggio individuale di Johan Cruyff: «Non vado nell'Argentina della giunta militare». L'Argentina dei desaparecidos lanciati nell'Atlantico dagli aerei della morte, delle torture nel garage degli orrori, della polizia segreta e onnipotente, della libertà trucidata. Sarà anche stato donchisciottesco, il Profeta del Gol, ma va messo sullo stesso piano di Ali, quando boicottò, non un campionato, non un'Olimpiade, ma la guerra del Vietnam. Ci rimise la corona e anni belli ma divenne il Più Grande.
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