
Erano diciannove per l’Agcom e quattordici per la Privacy. Totale: trentatré. In realtà i curricula dei candidati per le authority da rinnovare arrivati a Gianfranco Fini e Renato Schifani erano stati molti, molti di più. Oltre cento solo per l’agenzia per le telecomunicazioni. Troppi perché potessero essere esaminati e vagliati con la dovuta attenzione.
I trentatré tra i quali hanno dovuto scegliere i gruppi dem di camera e senato erano, per l’appunto, quelli riconducibili al Partito democratico. Le norme, infatti, attribuiscono al parlamento, e dunque ai partiti, l’elezione dei controllori. Il decreto salva-Italia ha ridotto da otto a quattro i membri dell’Agcom, ma non ha modificato i criteri di nomina. È evidente, quindi, che i partiti più grandi eleggono i loro candidati, a meno di accordi diversi.
Nel corso degli anni, si sono succeduti vari tentativi di mettere ordine nelle authority, sia nelle competenze sia nelle modalità di scelta dei componenti. La proposta elaborata a palazzo Chigi dall’allora sottosegretario alla presidenza del secondo governo Prodi, Enrico Letta, ad esempio, prevedeva di estendere a tutte le authority le regole di quella per l’energia elettrica e il gas: un presidente e quattro membri, decreto del presidente della repubblica su proposta del ministro delle attività produttive e delibera del consiglio dei ministri, approvazione preventiva delle nomine a maggioranza qualificata da parte della commissione parlamentare competente, divieto di passaggio da un’autorità all’altra. Linda Lanzillotta (ex Api) aveva ipotizzato anche che fossero considerati ineleggibili ex ministri, sottosegretari e parlamentari per almeno cinque anni dalla fine dell’incarico. Proposte mai arrivate a compimento.
Così oggi il parlamento voterà secondo le vecchie regole e così sia. Ma il “caso” scoppiato ieri va oltre le riforme non fatte per investire in pieno i partiti e segnatamente il Pd. Per settimane, infatti, sul web si sono rincorsi messaggi e richieste di trasparenza nelle nomine per Agcom e Antitrust. È stata anche questa la ragione per la quale i presidenti di camera e senato hanno “aperto” all’invio dei curricula. I tempi delle operazioni, tuttavia, non sono stati consequenziali, dal momento che il termine per la presentazione delle candidature scadeva ieri. E sempre ieri sia Pdl sia Pd hanno indicato i loro candidati.
I dolori dem arrivano qui. Perché, da una parte, a seguito di un incontro tra Bersani, Casini, Della Vedova, Finocchiaro e Franceschini, il Pd ha deciso di “cedere” un posto al Terzo polo, secondo logiche di accordo di antica tradizione; dall’altra, in nome della trasparenza e della democrazia, ha indetto una votazione tra i parlamentari dandole il nome, evidentemente considerato magico, di “primarie”.
Risultato: i capigruppo hanno raccolto mugugni quando non vere e proprie critiche sia per la prima ragione sia per la seconda. Contrario alla “cessione” all’Udc Stefano Ceccanti; durissimo con la scelta di «candidati di partito» Arturo Parisi, che con Paolo Barbi non ha votato. Qualcun altro, infine, avrebbe preferito evitare la «carnevalata grillina» dei tanti nomi che doveva servire a dare un’immagine di «trasparenza»: «In realtà è l’abdicazione finale della politica e del gruppo dirigente del Pd», chiosa un deputato che vuole restare anonimo.
Sulle agenzie e nel web, intanto, impazzano gli annunci di non partecipazione al voto di oggi di Sel, Idv e Radicali. Ma anche i parlamentari dell’Api potrebbero assentarsi, mentre la Federazione nazionale della stampa ha chiesto il rinvio del voto.
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