
10/05/10
Corriere della Sera
Uno degli interventi prospettati ieri - la possibilità che la Bce acquisti i titoli pubblici di alcuni Paesi dell’euro vendendo i suoi titoli americani e forse anche tedeschi, e quindi senza mettere a rischio la quantità di moneta e in prospettiva l’inflazione - è una mossa intelligente. Si ispira al Troubled Assets Relief Program (Tarp) attuato dalla Federal Reserve nell’ottobre 2008, dopo il fallimento di Lehman.
Questi interventi, se davvero attuati, e soprattutto se accompagnati da un grande prestito del Fondo monetario internazionale, sosterranno l’euro e i prezzi dei titoli pubblici dei Paesi in difficoltà. Ma i problemi del Sud dell’Europa non sono finanziari e non è con la finanza che si risolveranno.
Se così fosse i mercati non si preoccuperebbero solo di Grecia, Spagna e Portogallo. Il deficit pubblico in Gran Bretagna e negli Stati Uniti è oggi più elevato che in Spagna e Portogallo, eppure questi Paesi non hanno alcuna difficoltà a finanziarsi: anzi, più si accentuano le difficoltà dell’Europa, più i risparmiatori acquistano titoli pubblici americani.
Dopo il fallimento della Lehman le banche americane non erano insolventi, erano temporaneamente
illiquide perché possedevano titoli che non avevano più un mercato e quindi non potevano essere venduti. Risolto questo problema con i fondi del Tarp, le banche americane hanno immediatamente ricominciato a crescere. A un anno di distanza dagli aiuti ricevuti, Citigroup li aveva interamente restituiti e nel primo trimestre del 2010 ha guadagnato 4,4 miliardi di dollari.
Gli investitori non sono preoccupati dalla possibilità che la Spagna diventi improvvisamente illiquida e non riesca a rifinanziare i 50 miliardi di euro che scadono da qui all’estate. Sanno benissimo che la Bce (o il Fondo monetario o gli altri Paesi dell’euro) sono pronti a risolvere un problema di temporanea illiquidità. Non è questo che preoccupa gli investitori, almeno quelli che guardano lontano perché gestiscono i risparmi delle famiglie. Ciò che essi si chiedono è se la Spagna ricomincerà a crescere: sarà una storia simile a quella di Citigroup, oppure il Paese è destinato a un lungo periodo di stagnazione, con una disoccupazione per anni superiore al 20%? Perché in questo caso, qualunque siano gli aiuti, non è certo un Paese in cui investire.
In altre parole, il problema vero sono le prospettive dell’economia reale, non la finanza. Finanze pubbliche ordinate aiutano, come pure le misure fiscali che Spagna e Portogallo annunceranno in settimana e così anche gli interventi della Bce e i prestiti del Fondo monetario, perché danno il tempo per fare le riforme. Ma da sole non risolvono il problema della crescita e della disoccupazione. Il problema riguarda anche l’Italia. Nei 10 anni dell’euro il nostro reddito pro capite è cresciuto in totale dell’8%, meno che in Francia e Germania che hanno guadagnato 12 punti.
Ma in questa recessione quegli 8 punti noi li abbiamo persi tutti, cioè siamo tornati al reddito medio del 1999, mentre Francia e Germania dei loro 12 ne hanno persi solo 3. Forse è venuto il momento di raccontarci la verità, invece di continuare a ripeterci che stiamo meglio di tanti altri.
La ricerca di alcuni giovani economisti della Banca d’Italia, Matteo Brugamelli e Roberta Zizza, insieme a Fabiano Schivarli dell’università di Sassari, aiuta a comprendere perché non cresciamo. Le piccole e medie imprese italiane si dividono, a grandi linee, in due gruppi. Alcune hanno capito che con l’euro, per sopravvivere, occorre ristrutturarsi. Hanno investito a monte, inventandosi nuovi prodotti, e a valle, cercando nuovi mercati in cui venderli: la produttività è cresciuta, e così le esportazioni e i salari dei loro dipendenti. Altre aziende invece non lo hanno fatto: la produttività è rimasta invariata e oggi i loro prodotti-non sopravvivono alla concorrenza. In un’economia flessibile queste ultime chiuderebbero, lasciando spazio alle imprese più, efficienti per crescere e così aumentare la produttività media del Paese.
Ma ciò non accade perché noi proteggiamo le imprese, anche quelle improduttive, ad esempio utilizzando la cassa integrazione, anziché un moderno sistema di sussidi che aiutino i lavoratori a spostarsi da un’azienda all’altra. Questo frena la crescita, sia perché la presenza di aziende vecchie e protette rende più difficile crearne di nuove, sia perché le protezioni costano e a pagarle sono le imprese che guadagnano.
Questi interventi, se davvero attuati, e soprattutto se accompagnati da un grande prestito del Fondo monetario internazionale, sosterranno l’euro e i prezzi dei titoli pubblici dei Paesi in difficoltà. Ma i problemi del Sud dell’Europa non sono finanziari e non è con la finanza che si risolveranno.
Se così fosse i mercati non si preoccuperebbero solo di Grecia, Spagna e Portogallo. Il deficit pubblico in Gran Bretagna e negli Stati Uniti è oggi più elevato che in Spagna e Portogallo, eppure questi Paesi non hanno alcuna difficoltà a finanziarsi: anzi, più si accentuano le difficoltà dell’Europa, più i risparmiatori acquistano titoli pubblici americani.
Dopo il fallimento della Lehman le banche americane non erano insolventi, erano temporaneamente
illiquide perché possedevano titoli che non avevano più un mercato e quindi non potevano essere venduti. Risolto questo problema con i fondi del Tarp, le banche americane hanno immediatamente ricominciato a crescere. A un anno di distanza dagli aiuti ricevuti, Citigroup li aveva interamente restituiti e nel primo trimestre del 2010 ha guadagnato 4,4 miliardi di dollari.
Gli investitori non sono preoccupati dalla possibilità che la Spagna diventi improvvisamente illiquida e non riesca a rifinanziare i 50 miliardi di euro che scadono da qui all’estate. Sanno benissimo che la Bce (o il Fondo monetario o gli altri Paesi dell’euro) sono pronti a risolvere un problema di temporanea illiquidità. Non è questo che preoccupa gli investitori, almeno quelli che guardano lontano perché gestiscono i risparmi delle famiglie. Ciò che essi si chiedono è se la Spagna ricomincerà a crescere: sarà una storia simile a quella di Citigroup, oppure il Paese è destinato a un lungo periodo di stagnazione, con una disoccupazione per anni superiore al 20%? Perché in questo caso, qualunque siano gli aiuti, non è certo un Paese in cui investire.
In altre parole, il problema vero sono le prospettive dell’economia reale, non la finanza. Finanze pubbliche ordinate aiutano, come pure le misure fiscali che Spagna e Portogallo annunceranno in settimana e così anche gli interventi della Bce e i prestiti del Fondo monetario, perché danno il tempo per fare le riforme. Ma da sole non risolvono il problema della crescita e della disoccupazione. Il problema riguarda anche l’Italia. Nei 10 anni dell’euro il nostro reddito pro capite è cresciuto in totale dell’8%, meno che in Francia e Germania che hanno guadagnato 12 punti.
Ma in questa recessione quegli 8 punti noi li abbiamo persi tutti, cioè siamo tornati al reddito medio del 1999, mentre Francia e Germania dei loro 12 ne hanno persi solo 3. Forse è venuto il momento di raccontarci la verità, invece di continuare a ripeterci che stiamo meglio di tanti altri.
La ricerca di alcuni giovani economisti della Banca d’Italia, Matteo Brugamelli e Roberta Zizza, insieme a Fabiano Schivarli dell’università di Sassari, aiuta a comprendere perché non cresciamo. Le piccole e medie imprese italiane si dividono, a grandi linee, in due gruppi. Alcune hanno capito che con l’euro, per sopravvivere, occorre ristrutturarsi. Hanno investito a monte, inventandosi nuovi prodotti, e a valle, cercando nuovi mercati in cui venderli: la produttività è cresciuta, e così le esportazioni e i salari dei loro dipendenti. Altre aziende invece non lo hanno fatto: la produttività è rimasta invariata e oggi i loro prodotti-non sopravvivono alla concorrenza. In un’economia flessibile queste ultime chiuderebbero, lasciando spazio alle imprese più, efficienti per crescere e così aumentare la produttività media del Paese.
Ma ciò non accade perché noi proteggiamo le imprese, anche quelle improduttive, ad esempio utilizzando la cassa integrazione, anziché un moderno sistema di sussidi che aiutino i lavoratori a spostarsi da un’azienda all’altra. Questo frena la crescita, sia perché la presenza di aziende vecchie e protette rende più difficile crearne di nuove, sia perché le protezioni costano e a pagarle sono le imprese che guadagnano.
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