
Non una ma tre sono le notizie arrivateci dall'Aquila con la storiaccia, rivelata dal nostro giornale, della spartizione di cariche e prebende tentata per garantire al sindaco uscente Massimo Cialente la vittoria nel ballottaggio di dopodomani. Ripeto: notizie, non "pettegolezzi", come ha cercato di liquidarle il segretario regionale del Pd in Abruzzo, Silvio Paolucci, rispondendo alle domande circostanziate del nostro Fabio Capolla. La prima notizia, che ha giustamente ispirato a Mario Sechi l'immagine degli "avvoltoi" a proposito dei rapporti fra i partiti e la città martoriata dal terremoto, è naturalmente l'accordo in sé, con l'elenco degli incarichi, o "postazioni di governo", secondo il linguaggio del sindaco, destinati al movimento di Gianfranco Fini come una specie di dote nuziale.
La seconda notizia è che le nozze sono saltate non per un ravvedimento degli spasimanti, ma per un veto posto dai parenti dello sposo, cioè dagli alleati più o meno consolidati del partito di Cialente, il Pd.
La terza notizia sta nella natura esplicitamente discriminatoria di questo veto. In particolare, la sinistra, o l'agglomerato politico che si scambia e scambiamo per la sinistra, ha improvvisamente scoperto una incompatibilità quasi razziale con il partito, anzi il partitino di Fini. Al quale evidentemente non sono serviti i meriti acquisiti sul campo nella lotta all'odiato Silvio Berlusconi per liberarsi della zavorra politica che da quelle parti è considerata l'origine di destra del suo capo e dei suoi pretoriani.
Se è quindi vero, com'è vero, che la presidenza di Fini alla Camera nella seconda parte di questa legislatura, dopo la rottura con il Cavaliere, è stata salvata dalla sinistra, si può ritenere che essa abbia ormai saldato il conto, e non intenda andare oltre, neppure in sede locale. Dove pure i finianí hanno mostrato di conservare un tale accanimento antiberlusconiano, peraltro inversamente proporzionale alla loro consistenza elettorale, da avere indotto Pier Ferdinando Casini alla chiusura cautelare del cosiddetto terzo polo, per non compromettere un serio tentativo di ricomporre l'area moderata prima del rinnovo delle Camere.
Alla sinistra non è venuta lontanamente l'idea di contestare all'Aquila non il contraente ma il contratto. Cioè, il diritto dei partiti di accordarsi, in vista delle elezioni, per spartirsi non solo cariche politiche, come sono quelle di un assessore o di un presidente di commissione in Consiglio Comunale, ma anche cariche amministrative, riguardanti le aziende municipali, o compartecipate, e persino i componenti degli organi di controllo.
Siamo alla versione locale, o periferica, come preferite, del modello nazionale del rapporto perverso fra il partito e lo Stato. Che si crea quando il partito non si riconosce nello Stato, e lo serve rispettando le leggi, o facendone di utili, nelle aule parlamentari, alla sua efficienza e salute, ma semplicemente lo invade e lo occupa. A questa concezione aberrante del partito la sinistra partecipa attivamente. A volte, ne è anzi maestra, a dispetto di tutte le lezioni di legalità che è pronta ad impartire, a parole, ai suoi avversari cavalcando i temi della separazione dei poteri, conflitto d'interessi e simili.
Torna di attualità anche per questa conferma che è arrivata dall'Aquila una clamorosa protesta di Giuliano Amato ricordata l'altro ieri dal deputato del Pdl Giuseppe Calderisi, della scuola radicale di Marco Pannella, per tenerne conto nella disciplina giuridica dei partiti, se mai si riuscirà ad arrivarvi davvero per non continuare a restare fermi alle generiche garanzie dell'articolo 49 della Costituzione. Quello che riconosce a "tutti i cittadini il diritto di associarsi liberamente ai partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale". La protesta di Amato si levò in Parlamento nel 1993, mentre si esauriva la sua prima esperienza alla guida di un governo, contro il "partito-Stato": sia nella versione "al singolare" del fascismo, quando il partito era uno solo, sia nella versione "al plurale" della nostra democrazia, affollata di partiti. Modello L'Aquila, o anche modello Lega, con i cappi e le ramazze di andata e ritorno.
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