
La storia procede per salti. È ovvio che tutti i cambiamenti sono graduali, si delineano giorno dopo giorno, si affermano millimetro per millimetro, seguono i corsi e i ricorsi storici, rispondono a fasi cicliche, ma quando arriva il momento, quando si sono create le condizioni, due o tre volte in un secolo, avviene il salto! È proprio così. Ad esempio, facciamo un passo indietro e proviamo a riavvolgere il nastro: il crollo delle ideologie è avvenuto alla fine del secolo scorso, soprattutto con il 1989, a seguito della caduta del Muro di Berlino. Lo sappiamo, ormai è storia, ma un commento si impone. Anzi, c'è da porsi una domanda: è possibile che, in Italia, il dibattito sia ancora fermo a quel punto? Forse siamo ancora più indietro. L'attuale classe dirigente, infatti, malgrado i molti tentativi fatti nel corso degli ultimi trent'anni, è rimasta fedele agli schemi degli anni settanta nei quali si è formata ed è cresciuta. Soprattutto una certa sinistra. I più temerari hanno superato il 1989, ma non hanno ancora compiuto il salto successivo. Mentre i cittadini e gli elettori, al di là dell'appartenenza di parte o di partito, sono andati avanti. Sono più avanti. È come se si fosse creata, insomma, una frattura tra la spinta riformatrice delle forze più innovative e la negazione del futuro imposta dalla partitocrazia. Si tratta di un furto dell'avvenire dovuto ad una mancanza di memoria di gran parte della classe dirigente, politica e non, che alla fine dei conti si è rivelata una guida conformista, conservatrice, reazionaria. E qui le responsabilità del centrodestra è, forse, ancor più grave e clamorosa. Infatti, mi ricordo che, già nei primissimi anni novanta, tra noi studenti universitari di allora, si ragionava e si parlava un linguaggio ormai libero dalle vecchie pastoie ideologiche perché, in quel frangente, cioè nel momento in cui stavamo maturando la nostra coscienza politica, non sentivamo certo la necessità - come era invece accaduto ai nostri padri e ai fratelli maggiori - di relazionarci con il peso dell'oppressione ideologica. Non la sentivamo come nostra. Eravamo in una fase diversa, che speravamo "nuova" e tutte le ideologie ci apparivano stantie. Eravamo mossi, invece, da un'urgenza di cambiamento profondo, un'urgenza di libertà e di legalità. Volevamo un sistema politico più moderno. Cercavamo la strada per una democrazia più matura, anche se capivamo che la democrazia sarebbe rimasta incompiuta per definizione. In quel momento, cioè tra il 1992 e il '94, sembrò esserci un vento innovatore capace di spingere il nostro Paese verso la Riforma istituzionale, soprattutto grazie all'impulso dato dai referendum del 1991 e, poi, del 1993. In particolar modo, in quella fase di passaggio, molti miei coetanei, cioè i diciottenni e i ventenni di quella stagione così controversa, pensavano di rovesciare il vecchio regime partitocratico. Lo credevamo possibile. Ma il grosso della mobilitazione era propositiva o, almeno, trovò una strada costruttiva attraverso cui esprimersi: grazie ai referendum sulla legge elettorale. Eravamo stanchi del Potere. Non ci sentivamo più legati ai vecchi schemi ideologici. Eravamo convinti che le idee muovessero il mondo. Quella convinzione riformatrice contribuì a portare, per la prima volta, all'elezione diretta dei sindaci e, successivamente, al sistema politico dell'alternanza. Nel 1992, il pesante pregiudizio ideologico si era ormai stemperato negli atenei e soltanto alcune minoranze chiassose restavano ancorate a quel passato nostalgico. Molti studen- ti sentivano, per esempio, la forza rivoluzionaria di un sistema democratico sul modello anglosassone o americano, basato sui collegi piccoli e sullo stretto rapporto tra i cittadini e i candidati. Poi, però, la partitocrazia vanificò il tutto sopravvivendo, con metodi e mentalità, alla fine dei partiti storici. I partiti chiusero i battenti, ma la partitocrazia continuò a produrre la peste antidemocratica e antiliberale. Fino ad oggi. In altre parole, il vero nemico della partitocrazia, ieri come ora, è sempre stato il modello uninominale e maggioritario proposto dagli spiriti più liberali e illuminati. Il responso referendario di quegli anni, che andava proprio in tale direzione, venne smantellato e dissipato dal "mattarellum", cioè mantenendo il 25% di quota proporzionale oppure inserendo il cosiddetto "scorporo" ed altri espedienti partitocratici difficili anche da spiegare. Per questa ragione, sono contento di scrivere che oggi riprende vita l'iniziativa politica della "Lega per l'Uninominale". Il primo appuntamento si terrà questo pomeriggio alle ore 17, presso Palazzo Santa Chiara (ex Teatro dei Comici), in piazza Santa Chiara, a Roma. I lavori, che si svolgeranno nell'imminenza del giudizio di ammissibilità del quesito referendario innanzi alla Corte costituzionale, saranno introdotti e presieduti dal professor Fulco Lanchester, e vi prenderanno parte, tra gli altri, Gaetano Azzariti, Augusto Barbera, Francesco D'Onofrio, Gianni Ferrara, Giovanni Guzzetta, Michela Manetti, Oreste Massani, Andrea Morrone, Roberto Nania, Stefano Passigli, Giovanni Sartori, Massimo Siclari. Per quanto riguarda i politici, si prevedono le presenze e gli interventi di Marco Pannella, Mario Baldassarri, Stefano Ceccanti, Gian Claudio Bressa, Benedetto Della Vedova, Pietro Ichino, Antonio Martino. La mia convinzione, ancora oggi, è che la storia proceda per salti. Altrimenti è Potere.
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