
20/01/11
Il Foglio
Qualche sera fa, alla TV, ho rivisto un celebre film, “Lo spaccone”, protagonista uno splendido Paul Newman. Il divo dagli occhi di ghiaccio recita la parte di un giovane e spregiudicato giocatore di biliardo, e il film insegue il presuntuoso ragazzo - lo spaccone, appunto - nelle sue drammatiche gare con un altro fortissimo giocatore, il quale è sostenuto da una gang di scommettitori professionisti e senza scrupoli, pronti ad usare la violenza contro gli avversari del loro campione. I due si confrontano in interminabili partite. Io amo il biliardo (ho già avuto modo di scriverne su queste colonnine) e anche questa volta lo spettacolo delle bilie rotolanti sul tappeto verde del tavolo mi ha appassionato. Per la verità, non amo il gioco praticato dai due, il “pool”. Si tratta di un gioco tipicamente americano: lungo uno dei lati corti vengono sistemate, dentro un triangolo di legno, quindici biglie colorate e numerate. Il giocatore, colpendo la bilia al vertice del mucchio - il “pool”, appunto - con una bilia (bianca, questa) deve riuscire a infilarne un certo numero, mi pare otto, dentro una delle sei buche tutto intorno alle sponde del tavolo. Non richiede una grandissima abilità, anch’io vi ho giocato con discreti risultati all’epoca in cui frequentavo quelle sale. Niente a che vedere, per eleganza, con i giochi all’italiana o alla goriziana, che ho ammirato - anche questi, in TV - in una recente notte di insonnia: si assisteva alla partita da un angolo visuale speciale, grazie ad una telecamera fissata al soffitto proprio al centro del tavolo del biliardo, così da fornire una visione panoramica delle bilie nel loro ritmico volteggiare.
Per me, il biliardo è un gioco, per così dire, altamente filosofico. Un tempo lo immedesimavo al concetto di “caso”. Quel correre delle traiettorie, quel colpire seccamente la bilia avversaria, quelle raffinatezze che sono il rinterzo e il rinquarto di sponda o il rimpallo, mi sembravano una raffigurazione dell’incerto e assurdo destino umano e anche cosmico. Poi mi sono ricreduto e il biliardo ora mi pare una perfetta dimostrazione della regolarità meccanica del mondo, retta da un sistema matematico definito e immutabile. Parlo, si intenda, del gioco con la stecca, dove il giocatore ha qualcosa del creatore, la sua intenzione e volontà si traducono in un evento prevedibile con assoluta esattezza. Nulla, qui, è attribuibile al caso. Diversa è la “boccetta”, che si gioca tirando la bilia con la mano e mi dà l’impressione di un gioco per nevrotici, magari anche un po’ drogati. Il loro tiro non è mai prevedibile, la mano ha movimenti non del tutto controllabili. Qui il caso sembra essere davvero presente e onnipotente.
Il “pool” mi fa pensare al big bang che ha dato origine all’universo della materia. Quando, in avvio di partita, tra il silenzio degli spettatori, il giocatore picchia con la sua bilia bianca quella posta al vertice delle quindici raggruppate nel triangolo, l’impulso si propaga con uno scatto bruciante e le bilie schizzano via aprendosi a ventaglio in tutte le direzioni. Deve essere successo proprio così con il big bang, quando dal grumo emerso dal nulla si sono separati, in un milionesimo di secondo, i miliardi e miliardi di atomi, a formare l’universo. Ciascuno di quegli atomi portava in sé, come una cellula primordiale, infinite possibilità evolutive, tutte già programmate ab aeterno. Il pool mi rappresenta insomma una presenza “intelligente”, una volontà sovrannaturale (cioè, letteralmente, sopra e diversa dalla materia) che si manifesta in un istante che chiameremo “creazione”. Chissà se i greci e i romani conoscevano un gioco atto a indurli ad una riflessione di questo tipo. Nella fisica antica, la natura è increata, gli atomi di Democrito si muovono eternamente in un vuoto cosmico nel quale, peraltro, “non esiste basso né alto, né centro né ultimo né estremo”. Questa natura eterna poteva prevedere l’avvento del caso solo grazie al “clinamen”, la impercettibile deviazione nel moto degli atomi introdotta da Epicuro nel sistema deterministico di Democrito.
Ma in uno qualunque dei giochi con la stecca l’uomo si presenta come un imitatore del dio, un dio dotato di intelligenza e soprattutto di volontà. E’ impossibile che il dio-giocatore sbagli il colpo. Il credente può essere contento del paragone, soddisfa benissimo le sue esigenze fideistiche. Il laico sarà invece un po’ seccato. A lui non basta nemmeno il “clinamen” di Epicuro. Pretende un po’ più di libertà, di autodeterminazione. Così, a volte, mi viene da pensare che il laico debba rivendicare per sé il privilegio, la possibilità di sbagliare il colpo della stecca. Si può immaginare che il laico sia il cattivo giocatore, il meno abile, quello destinato probabilmente a perdere, per incapacità, imperizia, ecc.; ma, oserei anche aggiungere maliziosamente, forse il laico, sbagliando il colpo, prova intenzionalmente a scherzare con l’onnipotenza di dio. Potrebbe far finta di non saper giocare, solo per togliersi il gusto di uno sberleffo ironico.
Fantasie irriverenti, lo so.
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