
Nella primavera 1987 Morandi, Tozzi e Ruggeri vinsero a Sanremo con Si può dare di più, Craxi si dimise da capo del governo, il Napoli di Maradona festeggiò il suo primo scudetto e il Parlamento si impegnò ad abolire il portaborse in nero. Un quarto di secolo dopo, però, la larghissima maggioranza di deputati e senatori se ne infischia ancora del decreto del Ministro del Lavoro del 16 marzo 1987 e del codice contributivo messo allora a punto dall'Inps per permettere ai parlamentari di «instaurare un rapporto di lavoro subordinato con il proprio collaboratore». Lo ricorda, in una lettera a Gianfranco Fini, il portavoce dei Co.co. pari. (cioè il «portaborse»), Emiliano Boschetto: «Nella sola Camera risultano attualmente essere 230 gli assistenti accreditati ciò significa che ci sono circa 400 deputati che utilizzano il fondo per motivi diversi a quelli cui è destinato. Se l'erogazione di tale somma fosse invece vincolata all'instaurarsi effettivo di un contratto di lavoro fra deputato ed assistente, ad ora, la Camera avrebbe un risparmio netto di circa 17.712.000 euro».
Per riassumere: il deputato riceve ogni mese 3.690 euro (fino a gennaio 2011 erano 4.190, poi c'è stato un taglio quasi totalmente scaricato sui portaborse) per pagare i collaboratori ma in realtà nessuno controlla se quei soldi vengono o meno smistati a chi di dovere. Tant'è vero che, alla richiesta di precisazioni di un senatore, il segretario generale di Palazzo Madama Antonio Malaschini rispose un giorno che quel «contributo (...) non ha alcun vincolo di destinazione rispetto a eventuali prestazioni lavorative: rese da terzi o a possibili configurazioni contrattuali». La certificazione scritta che si tratta di una ipocrita prebenda esentasse data a prescindere appunto dalla «eventuale» assunzione di un collaboratore. All'ennesima esplosione del problema, Fausto Bertinotti (che davanti alle Iene era caduto dalle nuvole: «non lo sapevo») fece diffondere un comunicato: «La Presidenza della Camera ha approvato stamattina la delibera che mette fine all'anarchica situazione dei collaboratori parlamentari». Del resto, ricordò, «d'impegno a sanare i numerosi casi dei “portaborse in nero” era stata preso da lui e dal presidente del Senato Franco Marini».
Insidiatosi sul seggio più alto di Montecitorio, Gianfranco Fini ribadì che l'andazzo di pagare in nero il portaborse «da un punto di vista morale è un comportamento poco onorevole, una formula molto diplomatica per dire che è un comportamento inaccettabile». Bene, bravi, bis. Poi passano mesi, anni, decenni e tutto resta come prima. I collaboratori tornano a chiedere oggi di adottare le regole europee: il parlamentare segnala un collaboratore di fiducia e questo è provvisoriamente (provvisoriamente!) assunto e pagato direttamente dal Parlamento. Una riforma semplicissima. Che si può fare immediatamente. Eppure non si fa. Perché? Perché è molto più facile buttare lì a chiacchiere le proposte di straordinarie riforme istituzionali che tanto si sa che andranno impantanarsi...
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