
Un terrificante 2012 alle spalle, un incoraggiante 2013 alle viste. Tutto risolto, o quasi. La lettura combinata di diversi dati può suggerire questa conclusione.
Errore doppio. Perché la crisi ha radici profonde e denti aguzzi che stanno erodendo l'economia reale, il sistema industriale.
E perché trasferire questo messaggio nel bel mezzo di una campagna elettorale già confusa, con pochi numeri al netto di quelli dei continui sondaggi, e senza esclusioni di colpi (alti e bassi), suonerebbe come viatico generale a un pericoloso "liberi tutti".
L'Istat ha certificato quello che lo scorrere dei numeri aveva fatto intuire fin dall'inizio del 2012. L'Italia è congelata. Giù il reddito delle famiglie (a loro modo eroiche, essendo tornata ad aumentare nel terzo trimestre 2012 la propensione al risparmio), giù i consumi a livello post-dopoguerra, giù i profitti e gli investimenti delle società "non finanziarie", cioè le imprese produttive con più di cinque dipendenti. Su la pressione fiscale. Quella ufficiale arrivata nei primi nove mesi del 2012 a quota 44,8% contro il 43,2% dello stesso periodo 2011. Quella effettiva intorno al 57 per cento.
Un Paese fermo, disoccupazione allarmante ma mercati finanziari e di borsa allegrotti. Spread in tendenziale discesa (cala sotto il 4,3% il rendimento dei BTp). Borsa in forte rialzo, reginetta ieri in Europa.
Del resto, anche il panorama internazionale è più disteso grazie al – parziale e provvisorio – accordo sul "fiscal cliff" americano e alla caduta delle tensioni per i Paesi dell'eurozona in crisi da debito sovrano. Caduta alla quale, oltre al ruolo positivo svolto dalla Bce, ha contribuito l'Italia nel 2012 con la messa in sicurezza dei suoi conti pubblici, decisiva per la stabilizzazione dell'euro. Non vanno dunque dimenticate la condizione di allarme finanziario e insieme di paralisi decisionale che portò al passo indietro di Silvio Berlusconi e alla nascita del governo di Mario Monti. Così come è un fatto il recupero di credibilità internazionale che ne è seguito.
Tutto ciò non deve però far abbassare la guardia. Per due motivi. Il primo: cedere anche di un millimetro sul controllo dei conti pubblici sarebbe un errore che pagheremmo carissimo e che riporterebbe l'Italia, chiunque governerà, alla mercè di un ciclone dai lei stessa attivato. Abbiamo approvato il "fiscal compact" e il suo percorso ad ostacoli per abbattere il debito che si prospetta per di più in salita in termini di sostenibilità. Un passo falso prima ancora di iniziare la rincorsa avrebbe conseguenti devastanti.
Secondo motivo. Un pareggio di bilancio che ha come sola bussola il saldo finale può essere raggiunto in vari modi.
Ad esempio lasciando lievitare la spesa e facendo correre di più le entrate. Su questo punto bisogna essere chiari: la pressione fiscale ha raggiunto livelli già insostenibili, non solo in termini numerici, ma anche in termini di percezione sociale. Cittadini e imprese sono convinti di essere finiti in un tritacarne, anche burocratico e non rispettoso dei loro diritti, che non dà scampo per l'oggi e per il domani. Hanno ottime ragioni, facendosi i conti in tasca (quelli sul cuneo fiscale nelle buste paga sono un esercizio facile ed esemplare) senza bisogno di leggere né le analisi critiche di tanti premi Nobel per l'economia né i rapporti del Fondo monetario sugli impatti recessivi, sottostimati, dell'austerità di governo in salsa euro-tedesca. Ci si aspetta che le tasse scendano.
Come previsto da questo giornale la "questione fiscale" è al centro della campagna elettorale. Era ineludibile. Ma è scoppiata nel modo peggiore sotto una pioggia battente di promesse, ipotesi bizzarre o estemporanee, accuse e contro-accuse, e nella stragrande maggioranza dei casi senza indicazioni di tagli di spesa o dismissioni del patrimonio pubblico, ma piuttosto proponendo l'esigenza di nuove tasse (una sempreverde patrimoniale o altro) per ridurne o abbatterne altre.
Una strada che sbocca in un vicolo cieco.
© 2013 Il Sole 24 Ore. Tutti i diritti riservati