
Quando ci si chiede perché il governo dopo l’invidiabile sprint iniziale con cui aveva realizzato per decreto la riforma delle pensioni e ristabilito a tempo di record le relazioni con i principali partners europei e internazionali -, negli ultimi due mesi è ripiegato su se stesso, e si trascina da inizio d’anno in un’interminabile trattativa sul mercato del lavoro, non c’è molto da approfondire per trovare la risposta, che è sotto gli occhi di tutti. Un presidente del Consiglio che quasi tutte le settimane deve convocare un vertice di maggioranza per rimettere insieme la coalizione che lo sorregge - facendo i conti, ora con la sinistra, ora con la destra, e ogni volta ricominciando da capo perché sinistra e destra sono alleate e avversarie allo stesso tempo - in pratica non è messo in condizione di lavorare.
Neppure ai tempi della Prima Repubblica quando i debolissimi governi pentapartitici si trascinavano da una «verifica» a una crisi il ritmo delle rinegoziazioni programmatiche e dei continui compromessi tra le forze politiche era così frequente e nevrotico.
Se hanno sottoscritto un programma d’emergenza che prevede una serie di riforme, dure da far digerire agli elettori, ma indispensabili per uscire dalla crisi, i partiti non possono rimangiarsene ogni giorno un pezzetto, tal che, un emendamento oggi e uno domani, intanto i provvedimenti restano impantanati in Parlamento, e quando si arriva alla formulazione finale, spesso si tratta di una versione edulcorata e meno efficace del testo che si voleva approvare in partenza. Lo stesso vale per le parti sociali, si tratti della Cgil e dei sindacati che hanno premuto sul Pd per ottenere il ridimensionamento della nuova disciplina dei licenziamenti, o della Confindustria che ha chiesto e ottenuto l’appoggio del Pdl per annacquare le nuove norme sul precariato e sulle flessibilità in entrata.
Quel che i mercati hanno capito, o meglio non riescono a comprendere fino in fondo, è esattamente questo. Quegli stessi mercati che avevano accolto favorevolmente la decisione dei partiti di fare un passo indietro e affidare a un tecnico di prestigio come Monti le scelte dolorose che nessun governo politico era stato in grado di fare, adesso non si spiegano cosa stia succedendo in Italia. Tutto sarebbe più chiaro se qualcuno avesse cambiato idea, mettendo in campo un’altra ricetta, come ad esempio sta accadendo in Francia, dove il candidato socialista Hollande propone l’esatto contrario della linea seguita fin qui dal presidente Sarkozy. Ma finora non è accaduto. Alfano, Bersani e Casini si preoccupano, com’è naturale, dei loro elettori, sottoposti a una cura da cavallo di sacrifici che sta già lasciando i suoi segni, si lamentano della recessione e del fatto che non si riesca a far nulla di concreto e urgente per la crescita, ma al dunque concordano che non c’è alternativa, né a Monti né a quel che Monti sta facendo.
L’intiepidimento dei rapporti con il governo ha inoltre coinciso con l’esplosione di una serie di scandali, che hanno portato ai minimi termini la già mediocre fiducia dei cittadini nei partiti. I quali si lamentano del fatto che li si faccia apparire tutti uguali e tutti allo stesso modo corrotti, cosa che ovviamente non è. Ma se negli stessi giorni in cui la Lega Nord, vale a dire il campione dell’antipolitica nato e cresciuto sullo slogan «Roma ladrona», affondava nella vergogna dell’inchiesta sull’uso privato da parte di familiari e famigli di Bossi dei rimborsi elettorali, sull’inverosimile serie di investimenti di fondi pubblici in Tanzania e a Cipro e sugli acquisti personali di diamanti, il governatore della Lombardia Formigoni, mentre due assessori della sua giunta erano costretti alle dimissioni, veniva coinvolto in un’altra indagine su una fondazione a lui vicina, e quello della Puglia Vendola in un ennesimo scandalo sanitario, si dovrà pur riconoscere che il fenomeno della corruzione è più che diffuso, e abbraccia ormai gran parte delle forze politiche. Gli episodi recenti non devono far dimenticare i precedenti che a ritmo incessante hanno scandito fin qui tutta la legislatura, e riguardato partiti che adesso, dimentichi di quel che si portano dietro da mesi, si comportano vanamente da primi della classe. Con l’incredibile paradosso che, mentre emerge a tutti i livelli l’ignominia di uno Stato che paga il quadruplo, dicasi il quadruplo, di quel che i partiti spendono come gli pare, i loro leader, con qualche piccola eccezione, sostengono di non poter rinunciare neppure a una parte degli oltre cento milioni di euro da incassare entro luglio. Un suicidio politico a dispetto dell’indignazione dei loro stessi elettori.
E’ di fronte a tutto ciò che Monti è apparso in questi giorni per la prima volta in difficoltà. E non, paradossalmente, come sostiene qualcuno, perché un tecnico, sia pure di altissimo livello come lui, non ha gli strumenti per affrontare una situazione politica così complessa. Nell’attuale contesto, infatti, di politico non c’è molto. Le rassicurazioni che anche ieri il presidente del Consiglio ha ricevuto nell’incontro con i tre segretari della maggioranza possono servire, ma non certo bastare ad affrontare il quadro di logoramento in cui è immerso il governo. Serve un nuovo scatto, una nuova investitura, e soprattutto serve l’impegno a mettere il presidente del Consiglio in condizione di portare avanti il suo programma senza ulteriori intoppi.
Non è il momento della memoria corta. Si tratta in fondo di riconoscere a Monti il ruolo che fu di Ciampi quasi vent’anni fa, in un’analoga e altrettanto difficile circostanza. I partiti che si dimenano e rischiano di affogare avrebbero tutto da guadagnare. L’antipolitica, che dicono di temere, si batte anche togliendo il guinzaglio al governo tecnico. E mettendolo in condizione di svolgere pienamente il ruolo politico che gli spetta e il compito di guida del Paese che gli è stato affidato.
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