
La Regione Lazio è il paradigma eloquente dell'impotenza del Pdl e del disfacimento del centrodestra.
Nella «catastrofe perfetta», ordita con maniacale perizia in poco più di due anni da una classe di inetti e di lestofanti, spicca l'inconsistenza politica di un movimento eclissatosi al culmine di un'orgia di potere che, rivedendola in flashback, si spiega soltanto con l'imperizia e la negligenza di chi avrebbe dovuto selezionare i candidati con ben altri criteri, mettendo da parte clientelismo, clanismo, tribalismo ed ordinario asservimento feudale.Ma la «catastrofe perfetta» non esaurisce i suoi effetti nel discredito e nell'epilogo giudiziario di una vicenda che ancora presenta molte ombre. Essa si dispiega, ben al di là di quanto era lecito attendersi, nell'accettazione dell'impotenza come formale atteggiamento politico di fronte ad un futuro che una nomenklatura, per quanto piegata e ferita, avrebbe quantomeno il dovere di provare a costruire. Invece, niente. Si preferisce tergiversare, lanciarsi addosso pentole di olio bollente, accusarsi reciprocamente, approfondire solchi già abbastanza ampi tra dirigenti politici e cittadini. E rimandare, giorno dopo giorno, la decisione su chi dovrà guidare una possibile, per quanto malmessa, coalizione alle imminenti elezioni regionali. Non sembra che tra Palazzo Grazioli e via dell'Umiltà si diano un gran daffare per individuare la squadra che dovrebbe competere con un centrosinistra che ha già il suo candidato alla presidenza, Nicola Zingaretti, dato vincente non solo dal suo partito, ma dalla totalità dell'opinione pubblica. La circostanza non stupisce più di tanto. Stupisce, invece, lo stupore di quanti, nel centrodestra, gridano allo scandalo perché l'elettorato cosiddetto «moderato» si starebbe orientando verso il naturale avversario. E cos'altro dovrebbero fare coloro i quali, avendo con entusiasmo dato i loro consensi alla Polverini che pur correva zoppicante, priva della lista del Pdl a Roma, di fronte all'inerzia davvero incredibile del centrodestra laziale e nazionale i cui vertici sembrano statue di sale, prigionieri di un sortilegio dal quale non sanno evadere? Si apprende che nelle province laziali numerosi esponenti di primo piano dell'agonizzante Pdl starebbero per passare all'avversario di un tempo: ovviamente si grida al tradimento da parte di quelle anime belle che fino a qualche mese fa alla Pisana e dintorni non vedevano, non sentivano, non immaginavano nemmeno i volgari baccanali che nelle segrete (ma neppure tanto) stanze consiliari si consumavano a maggior gloria della classe dirigente di un partito che, a dispetto della sua stessa imperizia, veniva tuttavia guardata dagli elettori con simpatia, ritenendola all'altezza del mandato affidatole. Che neppure di fronte all'inganno svelato si avverta l'elementare bisogno di provare, quantomeno, a rimettere insieme i cocci, ha dell'incredibile. Non ci si aspettava una mobilitazione civica a testimonianza della volontà di rinascita, ma almeno un sussulto sarebbe stato sufficiente viste le circostanze. La fatalistica accettazione del cupio dissolvi allontana la prospettiva di un nuovo inizio. Perciò non si trova un candidato, non si svolge una disamina politica di quanto è accaduto, non si articola una seria autocritica sulla cui base tentare l'approccio ad un programma sostenibile, non si fa piazza pulita dei protagonisti e dei comprimari che portano la responsabilità di aver orchestrato la descritta «catastrofe perfetta». Soprattutto è insopportabile la procrastinazione delle elezioni da parte di chi avrebbe il dovere morale e civile, prima che politico, di indirle immediatamente. Ed ancora più incomprensibile è il silenzio dei vertici del Pdl sulla data del voto. Ma qualcuno capisce che ritardare la pratica pregiudica le residue speranze di perdere con onore una competizione che sarà ovviamente difficilissima? Temo di no, purtroppo. Ed inquietano le ipotesi di chi immagina l'election day il 7 aprile, non soltanto perché sarebbe offensivo negare ai cittadini la rappresentanza regionale ancora per sei mesi, ma anche per il semplice fatto che l'accorpamento creerebbe maggiori problemi al centrodestra e al partito (o ai partiti) che lo rappresenteranno posto che la battaglia sarà condotta dagli avversari esclusivamente sugli scandali, la corruzione, l'immoralità di un ceto screditato. Insomma, le conseguenze le pagherebbero anche le tante persone perbene che saranno in lista e dovranno reggere un'offensiva spettacolare loro malgrado. Ci si poteva sottrarre a questo destino? Credo proprio di sì. Chi avrebbe dovuto evitare la costruzione della «catastrofe perfetta» nulla ha fatto accontentandosi di assistere impassibile al logoramento (non soltanto nel Lazio) di un partito intorno al quale nella primavera del 2010 si realizzò uno di quei rari miracoli politici che avrebbero fatto sperare bene chiunque. E invece... Adesso si attende un altro miracolo. Dovrebbe venire dalla Sicilia. E per uscire almeno un po' dal guado il solito Pdl ha caricato sulle robuste spalle di un uomo integerrimo e politicamente attrezzato il peso di risollevarne le sorti. Nello Musumeci è un entusiasta ed un realista perciò sa che pur conquistando Palazzo dei Normanni non è a Palermo che potrà ricominciare l'avventura del centrodestra. Si voterà il 28 ottobre, novantesimo anniversario della Marcia su Roma, ma dall'Isola non muoverà neppure un treno alla volta della Capitale. Meglio restarne alla larga, si dice.
© 2012 Il Tempo. Tutti i diritti riservati