
Il voto del Senato che abolisce i manicomi criminali è un atto di civiltà e progresso, sia pure tardivo, e la riprova di ciò sta, da un punto di vista parlamentare, nella contrarietà espressa dal blocco reazionario e forcaiolo di leghisti e di pietristi. Ciò detto, con un linguaggio anni Cinquanta adeguato al ritardo con cui il legislatore ha affrontato il problema, non è tutto rose e fiori. Inutile cercare di rimuovere uno spettro, quello della legge 180 che abolì i manicomi ma dimenticò di dotare il servizio sanitario di fondi e strutture adeguati al nuovo e più civile corso. Nel caso degli Ospedali psichiatrici giudiziari (Opg) sarebbe imperdonabile ripetere l'errore. Il numero delle persone coinvolte è bassissimo, circa 1.500. Per di più lo stato della giustizia nel nostro Paese autorizza il dubbio che non tutti abbiano caratteristiche di patologica pericolosità sociale tali da giustificare la segregazione. Perché non dovrebbe valere per gli Opg quello che stava scritto all'ingresso del manicomio di Agrigento: «Non tutti ci sono, non tutti lo sono»? Quanti "dimenticati" stanno fra quei 1.500? E in ogni caso, pur con tutta la crisi, è concepibile che non si riesca a trovare il modo di abbinare sicurezza e cura per poco più di mille persone? Un progetto in merito sta già nei cassetti del ministero della Giustizia, fu consegnato dal professor Vittorino Andreoli quando a via Arenula sedeva il leghista Roberto Castelli. La storia, anche quella ministeriale, ha una sua malizia.
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