
07/12/10
Il Fatto Quotidiano
L’Egitto si assuma la responsabilità di ogni vita che viene persa nel deserto del Sinai in questi giorni". Usa parole forti don Mussie Zerai, il prete eritreo che da Roma si batte perché siano salvati i 250 profughi africani ridotti in schiavitù un mese fa da una banda di trafficanti: catene ai piedi, cibo ogni tre giorni, acqua salata come risposta alla sete e bastonate a sangue. A mezzanotte di domenica era scaduto il secondo ultimatum, e per questo il contatto di ieri mattina si annunciava drammatico: ma alla fine Biniam, il ragazzo venticinquenne di cui don Mussie si finge un parente ricco, è venuto al telefono: "Ci hanno chiesto 500 dollari per restare ancora in vita, e glieli abbiamo fatti arrivare". Cinquecento per non essere uccisi, 8 mila per riconquistare la libertà. Ha detto anche, Biniam, che i soccorsi debbono giungere in fretta, perché gli ostaggi sono allo stremo delle forze e i carcerieri appaiono infastiditi dal tam-tam mediatico che si sta creando attorno al loro caso, grazie anche all’appello che il Papa ha rivolto domenica all’Angelus. Benedetto XVI ha invitato a pregare perché "Gesù porti consolazione, riconciliazione e pace" in tutte le situazioni di violenza facendo specifico riferimento "alle vittime di trafficanti e di criminali" e al "dramma degli ostaggi eritrei e di altre nazionalità nel deserto del Sinai".
Ma il nostro governo, cosa sta facendo? "Siamo in contatto con il viceministro egiziano degli Affari consolari Abdel Akam - risponde Stefania Craxi, sottosegretario agli Esteri con delega per l’Africa del Nord – È lui che coordina l’Interno, i Servizi di sicurezza e il Governatorato del Sinai. Ci ha fatto sapere che sono continuamente alle prese con bande di beduini che fanno azioni del genere. L’Egitto è tutt’altro che connivente, ma non hanno informazioni sul caso specifico". Ma non eravamo noi a dover dare informazioni a loro? Non aveva saputo, don Mussie e dagli stessi prigionieri, il nome della città del nord piuttosto vicina al confine con Israele dove i profughi vengono tenuti in catene? "Io stesso ho mandato una mail alla segreteria dell’onorevole Craxi, contenente il nome della località - afferma stupito don Mussie - e l’inviata pure agli uffici Unhcr del Cairo". La onlus umanitaria Everyone ha esteso queste indicazioni, strettamente confidenziali, agli uffici Onu di Ginevra e, ieri, addirittura al ministero dell’Interno egiziano. Anche l’altro sottosegretario, Alfredo Mantica, in missione all’estero, promette di darsi da fare: "Non per mia competenza specifica, ma come amico del popolo eritreo". Non sapeva di quelle precise indicazioni geografiche e ieri sera ha allertato l’ambasciatore italiano al Cairo, Claudio Pacifico. Anche l’onorevole del pdl Margherita Boniver é all’oscuro del nome della città: "Quando ho incontrato don Mussie, non si conosceva ancora. Ma ci siamo mossi ai livelli più alti, allertando ministro e capo della sicurezza egiziana". Mentre i prigionieri hanno dovuto comunicare ai parenti europei, attraverso il satellitare dei carcerieri, il numero segreto con il quale al Cairo, via Western Union, i trafficanti hanno incassato il denaro, ci si continua a chiedere come possa essere tenuta in catene, in un luogo abitato, tutta questa gente senza che la polizia se ne accorga. "L’Italia deve operare una pressione molto più forte sul governo egiziano - osserva Luigi Manconi, presidente dell’associazione A Buon Diritto - Alcuni di questi schiavi sono stati respinti in mare dalle nostre motovedette, imprigionati nel carcere libico di Al Braq e Frattini aveva assicurato che, liberati, avrebbero ottenuto un lavoro".
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