
Sarà difficile spiegare che il risultato delle elezioni amministrative del 6 e 7 maggio non dipende solo dall'appoggio a Mario Monti. L'impopolarità delle misure prese dal governo dei tecnici è un'ottima causa esterna per velare i ritardi e gli errori dei partiti; e per evitare di guardare in faccia una geografia politica che non anticipa quella della Terza Repubblica, ma sembra la coda estrema della crisi della Seconda, gonfia di scorie e convulsioni antisistema. Altrimenti non si spiegherebbe perché, oltre al Pdl governativo, anche la Lega delle barricate contro Monti venga ridimensionata brutalmente in quello che era il «suo» Nord; e perché il Pd abbia sostanzialmente tenuto.
Colpa degli scandali della cerchia di Umberto Bossi, certamente; ma anche di un progetto esauritosi da tempo, che la vittoria a Verona del sindaco «maroniano» Flavio Tosi non compensa. È indubbio che gli umori antieuropei stiano crescendo, come in Francia e soprattutto in Grecia. I provvedimenti imposti dai mercati finanziari li hanno fatti lievitare. Se ne colgono i germi sia nell'affermazione, imprevista nelle dimensioni, del movimento «Cinque stelle» del comico Beppe Grillo; sia nell'astensione aumentata del 6 per cento. Eppure, l'antieuropeismo si confonde con l'ostilità verso la nomenklatura partitica.
La percentuale del non voto è preoccupante ma non allarmante, visto lo sfondo di macerie della politica nel quale si inserisce. E il trionfo dei «grillini» riflette una protesta trasversale che probabilmente pesca oltre i confini della sinistra. È il contenitore di un «no» che prescinde dagli schieramenti e rispecchia confusamente, a volte con parole d'ordine irresponsabili, la voglia di spazzare via un sistema incapace di riformarsi. D'altronde, in modo diverso è l'identico istinto suicida dei partiti a spiegare l'affermazione a Palermo di Leoluca Orlando, oggi portavoce dell'Idv ma oltre vent'anni fa sindaco democristiano anomalo della «primavera palermitana».
Nel ginepraio delle situazioni locali, spiccano la sconfitta di ciò che resta del centrodestra e la tentazione di scaricarla su Palazzo Chigi. Come se la rottura fra Pdl e Lega si fosse consumata solo cinque mesi fa, alla nascita del governo Monti, e non fosse cominciata invece nel maggio del 2011, dopo un turno amministrativo che dilatò tutte le crepe del governo di Silvio Berlusconi. La solitudine dei partiti del fronte moderato e la loro quasi inevitabile sconfitta è scritta nel tramonto della leadership berlusconiana; e nell'incapacità di sostituirla con qualcosa di più appetibile. Da questo punto di vista, lo stesso Terzo polo non è percepito come un'alternativa.
Da ieri, però, l'impressione è che anche Monti sia più solo. Da scudo dei partiti, rischia di diventarne il bersaglio. Ma non è detto che la classe politica si risollevi picconando il governo dei tecnici. Anzi, potrebbe distruggere il suo ultimo alibi.
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