
Il Governo si accanisce, con effetti che rischiano di risultare paradossali e molto gravi per il futuro del sistema infrastrutturale del Paese, nella difesa della soglia di 500 milioni per il credito di imposta alle opere realizzate con finanziamento privato. La posizione del Governo nasce, probabilmente, da una scarsa conoscenza del crescente mercato del project financing in Italia.
Oppure da una politica che si nutre più di annunci che di effettivi stimoli alla crescita. Anche quando si attivano strumenti nuovi, come quelli fiscali, l'ambito di applicazione viene così ristretto che si annullanno i benefici generali per il sistema economico.
Pochi numeri aiutano a capire cosa significhi tagliare fuori le piccole e medie opere dai benefici fiscali contenuti nell'ennesimo decreto sviluppo oggi all'esame del Parlamento. Su 1.758 bandi di gara relativi a opere in concessione cofinanziate da privati dal 1° gennaio 2010 al 30 giugno 2012, 1.749 (pari al 99,9%) riguardano opere di importo inferiore a 500 milioni e solo 9 riguardano opere sopra soglia. Se si guarda, però, non il numero delle opere ma il valore complessivo dei lavori messi in gara, la situazione si ribalta e le 9 opere pesano per 13,1 miliardi (pari al 64% del totale) e la miriade delle opere medio-piccole pesano 7,4 miliardi (36%). Qui c'è il primo paradosso.
Perché incentivare 9 grandi opere con un credito di imposta massimo al 50% può costare al fisco molto di più che non incentivarne 1.749 di taglio piccolo. Come viene superato questo paradosso? Con il filtro Cipe: al beneficio accede solo una ristretta lista di opere scelte dal Governo. Il viceministro alle Infrastrutture, Mario Ciaccia, che aveva inizialmente proposto strumenti di ben altra efficacia, come la sterilizzazione dell'Iva per realizzare opere in project financing, ha dovuto fare marcia indietro per il "niet" dell'Economia e ha annunciato che il credito di imposta sarà limitato a sette grandi opere (si veda Il Sole 24 Ore del 6 ottobre scorso).
Secondo dato. Il 75% delle opere in concessione bandite dalle Pa (o proposte dai privati e fatte proprie dalle amministrazioni) non arrivano al cantiere. Le ragioni sono molteplici e sono indicate da uno studio Ance presentato ieri (si veda pagina 5). C'è una generale mancanza di certezze progettuali, amministrative e finanziarie. Le difficoltà ordinarie delle Pa (patto di stabilità, procedure farraginose, carenze organizzative) sono enfatizzate nel momento in cui si affrontano i problemi nuovi del finanziamento privato di opere. Una mortalità di tre opere su quattro denuncia anche l'assenza colpevole di una politica nazionale che sostenga il nuovo mercato.
Terzo dato. Il più generale mercato pubblico-privato è in forte espansione e sta cercando di rimpiazzare un pezzo del motore delle opere pubbliche perso dall'economia italiana negli ultimi 6-7 anni. Dal Rapporto annuale del Cresme che sarà presentato oggi emerge che gli investimenti in opere pubbliche valevano 38,6 miliardi nel 2005, mentre nel 2012 ne vale 31,6 (-35% in termini reali). Il settore pubblico-privato pesava per 645 milioni nel 2005, nel 2012 ne vale 1.948. Se si passa dalla spesa effettiva ai bandi di gara pubblicati, la crescita è anche più clamorosa: l'investimento programmato è passato da 1,3 miliardi del 2002 a 13,3 miliardi nel 2011, con una leggera frenata nel 2012 (9 miliardi), indotta anche dalle difficoltà a portare avanti il mercato senza un quadro di regole chiaro e una politica nazionale mirata.
Quali conclusioni? Si chiudono i rubinetti della spesa pubblica e si invitano le amministrazioni a cercare finanziamenti privati alle infrastrutture, ma non esiste una politica di sostegno a questo passaggio epocale. Si rischia di stroncare sul nascere un mercato che è l'unica possibilità per l'Italia di colmare il gap infrastrutturale nei prosismi venti anni. Si premiano sette grandi opere e si trascura un tessuto di piccole opere (acqua, turismo, beni culturali, parcheggi, impianti sportivi, sanità, trasporti) fondamentali per lo sviluppo dei territori.
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