
La pratica della tortura nel nostro Paese-culla-del-diritto non è storia fuori dal tempo, archiviata nel Medioevo insieme agli armamentari dell'afflizione fisica come lo schiacciapollici, la Vergine di Norimberga e altri orrori oggi custoditi nel Museo di criminologia criminale di Via Giulia a Roma. La tortura è anche storia recente dell'Italia repubblicana.
È stata praticata negli Anni di Piombo, e non si è trattato solo di acqua e sale da far ingerire a forza, di sevizie e botte. Al brigatista Cesare Di Lenardo, uno dei carcerieri del generale americano Dozier, sequestrato nel dicembre 1981 e liberato dalla polizia un mese dopo, fu fatto di peggio. I Radicali registrarono alla Rai una tribuna autogestita, con Emma Bonino che aveva dietro di sé una gigantografia, che la sovrastava, con il membro torturato di Cesare Di Lenardo. Interrogato sul fatto da Marco Pannella, l'allora ministro dell'interno Virginio Rognoni rispose: «Questa è una guerra. E il primo dovere, per difendere la legge e lo Stato, è quello di coprire, di difendere i nostri uomini...». Anche quel poliziotto, soprannominato "professor De Tormentis", accusato di avere usato regolarmente tecniche di tortura contro i presunti brigatisti.
Qualche anno dopo, nell'estate del '92, alcuni parlamentari radicali si recarono al carcere di Pianosa, nella sezione Agrippa, che era stata improvvisamente riaperta dopo anni di abbandono. Il giudice Paolo Borsellino era stato appena ammazzato e, nel giro di una notte, circa settanta "mafiosi" furono "impacchettati" e trasferiti nell'isola. Ai Radicali i detenuti raccontarono di manganellate, calci e pugni presi per niente, che erano tenuti svegli tutta la notte con colpi sulle porte delle celle o con docce di acqua fredda (di piscio, secondo alcuni), che erano costretti ad alzarsi alle sette e andare all'aria a correre e marciare sul cemento, che alcuni di loro erano stati sottoposti a finte fucilazioni che sarebbero avvenute in una chiesa sconsacrata sull'isola. Il termine "tortura", secondo il diritto internazionale, indica "qualsiasi atto mediante il quale sono intenzionalmente inflitti ad una persona dolore o sofferenze forti, fisiche o mentali, al fine segnatamente di ottenere da essa o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla per un atto che essa o una terza persona ha commesso o è sospettata di aver commesso, di intimorirla o di far pressione su di lei o su una terza persona". Il "carcere duro" del 41 bis è servito e continua a servire come catena di montaggio di una fabbrica di dolore e pentimento che nessun granello di sabbia di diritto interno e legalità internazionale può permettersi di inceppare.
Il 30 gennaio scorso, il tribunale di Asti ha assolto cinque agenti di polizia penitenziaria del carcere di Quarto accusati di aggressione e tortura nei confronti di alcuni detenuti... poiché tale reato non è previsto dal nostro codice penale. Al di là di ogni dibattito filosofico, questa sentenza rende evidente la gravità dell'assenza nel nostro Paese di uno strumento normativo di dissuasione da una pratica che il diritto internazionale classifica tra le violazioni più gravi dei diritti umani.
I difensori dello status quo di un vuoto normativo che perdura dall'11febbraio 1989, da quando cioè l'Italia ha depositato alle Nazioni Unite lo strumento di ratifica della Convenzione internazionale contro la tortura, sostengono che strumenti alternativi per prevenire e combattere la tortura esistono: c'è il reato di lesioni, c'è quello di violenza aggravata dall'aver commesso il fatto abusando della propria autorità di pubblico ufficiale, e così via.
Non è così, perché nello spirito e nella lettera della Convenzione Onu del 1984 la specificità del reato di tortura è tutt'altra, ed è atta e volta a proteggere non solo l'integrità fisica ma anche quella psichica delle persone private della libertà, in poche parole, a tutelare la complessità della dignità umana, la sfera sacra e inviolabile del corpo e dell'anima di un individuo.
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