
Un uomo ferito con la camicia aperta, i capelli lunghi. Nella concitazione delle immagini sgranate di un telefono cellulare si intravede un volto insanguinato, spaventato forse o già agonizzante. I fotogrammi successivi mostrano già un cadavere in terra, trascinato, esibito. Finisce così, in un tripudio di clacson e colpi sparati in aria, il corpo del tiranno mostrato in tv, senza più turbanti e mantelli, senza nessun ingrediente mitologico: un uomo ucciso. Il raìs non c'è più e non è chiaro se ci sia stata un'ultima battaglia, o la giustizia sommaria dei combattenti che per mesi lo hanno inseguito.
Se sia davvero la fine, lo diranno i prossimi giorni, al di là delle dichiarazioni ufficiali del Cnt. Ai caroselli in strada si sommano quelli diplomatici. «Wow», è il primo commento di Hillary Clinton, quando le mostrano la notizia sullo schermo di un cellulare. Esulta Sarkozy, neopadre che però non perde l'occasione per ricordare che sono stati i jet della Nato a bloccare il raìs. Certo per una guerra che portava il crisma di una risoluzione Onu e che rivendicava una base di diritto internazionale è uno strano epilogo: nessun processo, nessuna giustizia.
«Si ripete lo scenario delle guerre asimmetriche», dice lo storico Giovanni De Luna. Guerre tra diversi, per capacità militare, per cultura, «per valori di riferimento». «Alla base non ci sono regole condivise, nessun rispetto per il nemico. Sono le guerre post novecentesche, che ormai ci hanno abituato a queste pratiche». Non c'è solo l'orrore del corpo esibito, del trofeo, dell'esultanza su un cadavere, il nemico degradato e disumanizzato. Saddam schernito davanti alla forca e impiccato davanti ad una telecamera. Bin Laden, il cui corpo è stato occultato, ridotto a qualche fotogramma impubblicabile. «Queste guerre vogliono concludersi con l'annientamento dell'altro, non come una volta quando la condotta del conflitto teneva in conto che ci sarebbe stata una pace - dice ancora De Luna -. Per questo queste guerre non producono vere paci. Perché il nemico non può essere annientato completamente e quel che resta alimenta una spirale di violenza. È quello su cui dovrà ragionare la Nato nei prossimi giorni. Perché l'Iraq e l'Afghanistan insegnano che non basta annunciare «missione compiuta», come fece Bush, per pensare che sia davvero finita. Ma è anche quello su cui già ragionano quanti da anni aspettano una risposta e non si accontentano di un trofeo. Come i familiari delle vittime di quel volo della Pan Am, i 270 morti di Lockerbie. Jim Swire, che quel 21 dicembre dell'88 perse sua figlia Flora, pensa che su quel pick up dove Gheddafi è stato trascinato sia morta anche «un'opportunità di sapere la verità».
«Una vendetta. Si può capire, i libici hanno tanto sofferto. Ma la vendetta cancella la giustizia». Dacia Maraini ha visto l'immagine del tiranno ucciso e l'esultanza popolare. «Lui avrebbe fatto la stessa cosa se avesse vinto. Avrebbe impiccato, ucciso, massacrato. C'è una nemesi in questo. Ma un processo avrebbe reso giustizia soprattutto al popolo libico, avrebbe potuto chiarire i delitti e le atrocità del raìs. Si potrebbe chiedere ai vincitori di oggi clemenza per gli altri esponenti del regime». Per salvare almeno una parte di verità. È quello che pensa anche Emma Bonino, che inevitabilmente associa le immagini di Gheddafi ucciso all'esecuzione di Saddam. Che almeno parlino in un'aula di tribunale i figli del raìs per svelare i molti segreti di un regime che ha agito da protagonista sullo scenario internazionale. «Gheddafi non si meritava la "bella morte" in battaglia ma un bel processo da imputato - dice -: un processo equo, da parte di un tribunale indipendente e condotto nel pieno rispetto di quei diritti umani che egli ha negato a decine di migliaia di libici durante il suo regime sanguinario. Non è una bella notizia assistere all'ennesimo bagno di sangue. E non lo è soprattutto per il popolo libico. Non è stata la "grande vittoria" si cui da più parti si sente parlare».
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