
Per uno di quei cortocircuiti che rendono immortali gli attori, l’infarto che ha ucciso a 54 anni Michael Clarke Duncan ha riportato nelle nostre vite l’immagine di uno dei personaggi più meravigliosamente scomodi della narrativa contemporanea. Il gigante buono del film «Il Miglio Verde» John Coffee, «come la bevanda, ma scritto in modo differente». Fu concepito in una notte insonne da Stephen King, che gli volle dare le stesse iniziali di Jesus Christ e in fondo lo stesso destino. Un uomo semplice, dotato di poteri di guarigione straordinari, viene giustiziato sulla sedia elettrica per una colpa orribile che non ha commesso. Potrebbe scappare, non lo fa. Potrebbe odiare, non lo fa.
Ama e cura il suo prossimo in modo sovrumano, eppure è fragile, pieno di paure. Impossibile resistere a ciglio asciutto alla scena dell’esecuzione, quando J.C. rifiuta il cappuccio sugli occhi: «Ti prego, capo, non mettermi quella cosa in faccia. Io ho paura del buio». Ma sono altre le sue parole che mi inseguono da anni: «Sono stanco, capo. Stanco di andare sempre in giro solo come un passero nella pioggia. Stanco di non avere un amico che mi dica dove andiamo, da dove veniamo e perché. Stanco soprattutto del male che gli uomini fanno agli altri uomini. Stanco di tutto il dolore che sento nel mondo ogni giorno. Ce n’è troppo per me. È come avere pezzi di vetro conficcati in testa». Vorrei tanto ovattare la tua sofferenza con la mia stupida leggerezza, J.C. Ma ho imparato, anche da te, che sofferenza e amore sono vibrazioni di una stessa corda. Chi per non soffrire la strappa, non sente più niente. Ed è quella l’unica morte di cui avere paura.
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