
Per un radicale, cioè per chi da vent'anni è impegnato sul fronte dell'apertura alla concorrenza, l'ingresso nell'agenda politica delle liberalizzazioni, quelle vere, rappresenta un'opportunità: passare dallo scontro ideologico al confronto pragmatico. Quando negli anni Novanta abbiamo organizzato una riforma liberale del sistema produttivo intorno alle nostre proposte referendarie, scontammo l'infamia di quegli spacciatori di falso liberismo che sono stati Berlusconi e il complesso finanziario-militare americano.
Fu così, grazie anche all'assenza di democrazia, che non passarono i referendum che, tra il 1997 e il 2000, avrebbero consentito al nostro Paese di programmare in anticipo ciò che oggi siamo costretti a fare con la pistola puntata alla tempia: riforma delle pensioni, del mercato del lavoro e, appunto, liberalizzazioni.
Chiariamolo subito: chi vuole il mercato non vuole uno Stato debole, tutt'altro. Dicendo "meno Stato" intendo meno Stato imprenditore, foriero di conflitti di interesse e di inefficienze. Il mercato, al contrario, essendo uno statuto normativo necessita di uno Stato forte, ovvero di istituzioni autorevoli e rispetto delle regole. Sono sempre i potenti del momento, infatti, ad avere paura di istituzioni forti che favoriscano la concorrenza, perché sarebbero trattati allo stesso modo degli emergenti.
Non è cosa indifferente neanche per un libertario. La tutela della libertà di scelta individuale molto spesso rimane sulla carta se è ostacolata nei fatti. Prendiamo la pillola del giorno dopo: la pressione vaticana per ridurne la disponibilità attraverso la truffa degli obiettori di conoscenza si è basata sempre sul monopolio, sul restringerne la distribuzione e la disponibilità. La conferma la abbiamo avuta allorché il governo Monti ha liberalizzato i farmaci prescrivibili dal medico ma non rimborsati dal servizio sanitario, con l'intervento del Vaticano per vietare la vendita di quelli "eticamente sensibili" al di fuori delle farmacie tradizionali.
Liberalizzare la fornitura di servizi e l'esercizio delle professioni garantirebbe ai consumatori, dunque, non solo un risparmio economico ma anche una maggiore autodeterminazione. Bisogna però farlo sul serio, senza passare dai monopoli pubblici a quelli privati. Nella telecomunicazioni, ad esempio, una reale apertura alla concorrenza ha ridotto i prezzi, migliorato la qualità del servizio e sviluppato tecnologia. Tanto che oggi sono il settore dove meglio di altri sperimentare le teorie dei commons di Lawrence Lessig, lasciando una parte delle frequenze libere sia dalla proprietà pubblica che da quella privata.
Che le principali imprese italiane siano tutt'oggi di proprietà o sotto controllo statale non è stata una garanzia per il cittadino, bensì uno strumento del e per il potere. Basta pensare all'affaire Milanese, dove la vendita simoniaca delle cariche societarie diretta conseguenza del potere di controllo del Ministero dell'economia sulle nostre industrie a maggiore capitalizzazione.
A livello locale, intanto, le municipalizzate hanno sostituito in termini di rapporto clientelare quello che in passato garantivano gli enti pubblici nazionali, attraverso i quali la partitocrazia usava la spesa pubblica per comprarsi il consenso.
Così reinquadrato il processo di liberalizzazioni e persino di privatizzazioni -in quei settori, eccetto la sanità, la scuola e la difesa, dove è dimostrato che un'impresa di proprietà pubblica non possa fare meglio di una privata - come può una forza che si ritenga ancora di "sinistra" giocare un ruolo politico oltre che culturale?
Può farlo, anziché opporsi per garantire lo status quo, lottando per una conversione in senso ecologico e finanche redistributivo del patrimonio pubblico. Significa abbandonare velleità dirigiste evitando però che la cessione delle quote azionarie delle società nazionali e soprattutto di quelle comunali serva solo a fare cassa in favore di un nuovo affarismo partitocratico.
Come? Prevedendo che il ricavato delle dismissioni sia obbligatoriamente vincolato, in parte alla riduzione del debito pubblico (statale o comunale) ed eventualmente della pressione fiscale sui lavoratori, in parte destinato agli investimenti necessari per ridurre il debito ecologico accumulato, attraverso una conversione sostenibile del sistema produttivo ed in particolare del trasporto e della produzione di energia.
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