
Una vita passata a smarcarsi. E ora il paradosso di dover prendere in mano quel che resta della nostra sovranità nazionale e condurre l'Italia, o quantomeno l'euro, su lidi più sicuri. Il tutto con almeno un terzo dei deputati che gli faranno una guerriglia casa per casa. Mario Monti ha di fronte a sé un compito da far tremare i polsi e gli tocca accettarlo a 68 anni, dopo una carriera lenta ma sicura. Unica guarentigia: quel posto da senatore a vita che il suo grande amico Gianni Letta non ha fatto a tempo a ricevere (e che forse lo ha frenato).
Che cambio di stile, comunque, rispetto a quel Silvio Berlusconi che nel 1994 lo spedì per la prima volta a Bruxelles come commissario europeo al mercato interno. Monti è normolineo, nonno-vestito, normo-capelluto, normo-pallido, normo-cravattato, normo-collettato, normo-tutto. Mai alzato la voce, racconta chi ne è stato assistente in Bocconi. Mai minacciato o epurato nessuno, conferma chi ha lavorato con lui a Bruxelles dal 1994 al 2004. Mai inondato "clientes" e pulzelle di foulard del sarto napoletano Marinella. Sarà uno choc, vederlo alle prese con decine di Scilipoti che cercano di fargli pesare ogni singolo voto. Sarà un'esperienza metafisica, la prima volta che Gabriella Carlucci proverà a cingergli le spalle come faceva con il suo predecessore. Per dire il tipo, un paio di anni fa, di ritorno da Parigi, Monti si aggirava con il suo Aquascutumbeige per una boutique di Linate, rovistando tracravatte e profumi. Uno spettacolo davvero inconsueto, e non solo perché da commissario Antitrust aveva sempre combattuto i duty free. Cercava un regalo per la consorte, perché da gentiluomo all'antica sa che dall'estero si torna sempre con un pensierino. E la scelta cadde sul più smorto dei foulard di Ferragamo, dopo lunghe comparazioni cromatiche.
Franco Cingano, scomparso demiurgo della banca più tedesca di Milano, la Comit, avrebbe apprezzato la scelta di quel foulard. Fu lui, legatissimo a Enrico Cuccia, che all'inizio degli anni Settanta rimase colpito da quel trentenne professore di Economia dell'università Bocconi. Cingano gli aprì le porte della banca di piazza Scala, della quale Monti è stato consigliere d'amministrazione per un decennio. Il secondo incontro che gli cambiò la vita fu quello con Gianni Agnelli, cosmopolita e curioso quanto basta per intravedere dietro quell'austero consigliere Comit le doti di visione politica. Al presidente della Fiat piaceva farsi raccontare gli "anni ruggenti", almeno per gli standard di un uomo che era cresciuto dai Gesuiti del Leone XIII di Varese, che Monti aveva passato a Yale tra i discepoli di quel geniaccio di Jean Tobin, il profeta della tassazione sulle rendite finanziarie che avrebbe fatto inorridire 1-Avvocato cross-border" . Da questa fascinazione, nacque l'ingresso di Monti nel cda della Fiat, delle Generali e, soprattutto, la quindicennale collaborazione con il Corriere della Sera come editorialista di punta.
E però Monti non ha mai amato le investiture, che con gli allievi spiega sempre essere assai diverse dalle designazioni, e non ha mai voluto "sporcarsi le mani". L'esplodere di Mani Pulite lo ha vissuto come un vero incubo. I123 febbraio del 2003, rimase di sasso quando dalla lettura dell'amato "Corriere" scoprì che Antonio Di Pietro aveva fatto arrestare per tangenti il direttore finanziario della Fiat, Francesco Paolo Mattioli, e l'amministratore delegato della Toro Assicurazioni,Antonio Mosconi. Nel giro di due settimane, riservatamente, fece sapere ad Agnelli e a Cesare Romiti che si sarebbe dimesso dal cda. Ma con classe e "spirito di servizio", la notizia rimase riservata fino all'11 maggio seguente, alla vigilia dell'assemblea di bilancio. Nel bunker di Torino, va detto, non la presero benissimo.
Anche nel'94, quando Berlusconi lo designò come euro-commissario in rappresentanza dell'Italia, Monti impiegò poco a smarcarsi. In modo asciutto ma preciso, ne criticò la manovra economica. Nel '95 fece lo stesso con la Lega Nord, che lo voleva come premier per il ribaltone. E nel '99 quando, la sinistra al governo sembrava intenzionato a sostituirlo con la radicale Emma Bonino, l'allora premier Massimo D'Alema prese tutti in contropiede e ne ottenne la conferma, con promozione all'antitrust. In quella posizione, anche con l'amico Romano Prodi commissario Ue, il "Monti Due" passò quasi alla storia per aver bloccato l'avanzata europea di due campioni Usa come General Electric e la Microsoft di Bill Gates. Fu in quella fase che nacque il nomignolo di "Super Mario", che egli, con somma eleganza, ha sempre fatto sapere di non gradire minimamente. E anche se oggi torna in Italia da Goldman Sachs con la benedizione di Angela Merkel e Nicolas Sarkozy, l'ex rettore della Bocconi odia passare per un campione di antiamericanismo. Non solo per via di Yale e del suo odio per ogni traccia di economia corporativa, ma perché ha sempre coltivato i rapporto con le élite di Oltre Oceano, come gli ha insegnato Gianni Agnelli. Non a caso, Monti è tra i pochissimi italiani ad essere invitato agli incontri riservati della Trilateral Commission e del Gruppo Bildelberg.
Adesso, se gli dovesse mai toccare di dover firmare un decreto salva qualcosa per pacificare la guerriglia dei Berlusconi, Monti sarebbe sicuramente in grado di ripetere l'exploit dialettico del 2004 con la legge Gasparri. Intervistato dal "suo" Corriere sugli evidenti profili distorsivi della concorrenza tv a favore di Mediaset, se la cavò sostenendo che la riforma non rientrava nelle sue competenze europee perché "riguarda la tutela del pluralismo, e non la tutela della concorrenza nel normale senso della disciplina antitrust".
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