
La location è perfetta, istrionica, trasversale. Il «Teatro dei comici», ricavato nell'ex convento di Santa Chiara, la sera si dà «Ammazza che roba» di Alessandro De Carlo, e scivolando a destra nell'atrio c'è la cappella con le spoglie, vere, di Santa Caterina. Del resto, dovendo spiegare perché secondo loro Bonino farebbe meglio a rovesciarlo, quel tavolo «coi bari del Pdl», i radicali in assemblea citano la patristica, il cattolicissimo Hans Kelsen, i dominicani. Pazienza se si tratta proprio dell'ordine che mandò al rogo Giordano Bruno, ma sui dominicani Pannella si dilunga.
Anche loro si sono ribellati, con nota ufficiale, alla berlusconiana violazione del Diritto. E' la lunga seduta di autocoscienza radicale, «assemblea non deliberante» ha precisato il Grande Capo, uno sfogatoio di oratoria pirotecnica che sfavilla e poi precipita in logorrea, dieci ore secche dalle 10 alle 20.
Ma si trasforma nel giorno dell'orgoglio radicale. Perché in effetti sono almeno dieci anni che i pannelliani si battono contro le regole di presentazione delle liste elettorali, costantemente violate da tutti i partiti. E adesso che il caso è scoppiato, «per i pasticci di quello zozzone», come Pannella nomina più volte dal palco Berlusconi, loro sono orgogliosi e fieri delle loro buone ragioni. «Da anni l'Italia è un paese diversamente democratico», avvisa il costituzionalista Mario Patrono in apertura.
E sì, dettaglia Marco Cappato, «Formigoni ha in lista 3500 strane firme, strano che i lombardi abbiano tutti una calligrafia così simile». Spostare le elezioni? «Io non mi faccio cacciare», fa uno dei Grandi Vecchi, Gianfranco Spadaccia, «dobbiamo piuttosto mantenere solidamente il centro della scena, col senso del teatro, come dice Stefano Rolando». E quello effettivamente fanno.
I più arrabbiati sono i giovani, che si sono battuti sul territorio. Vuol rovesciare «il tavolo coi bari» Figà-Talamanca, «ci sono almeno 400 mila nostri elettori che non possono votarci, le liste non sono state accolte perché in ottomila Comuni italiani non c'erano a disposizione, come da legge, i funzionari», è la denuncia comune, dalla Campania all'Umbria, dal Po al Sarno.
Il dente è avvelenato, e morde a destra come a sinistra. «Napolitano non può far finta di non vedere», fa Geppi Rippa, che da giovane segretario radicale si presentò una sera al Quirinale per un ricevimento in onore di Gorbaciov avendo l'emblema del dollaro stampato in fronte, e fu respinto. «Noi avevamo chiesto di azzerare tutto, spostare le elezioni, e il Capo dello Stato invece dice che nessuna forza politica aveva fatto proposte» lamenta Rita Bernardino.
Pannella tuona e annuncia che porterà la battaglia contro l'illegalità italiana a Bruxelles, a Strasburgo, «e poi all`Osce».
Poi arriva Pier Luigi Bersani, dinoccolato come non mai, avvolto in una sciarpa grigia quando tutti ce l'hanno giallo oro, il colore di Emma, che però sventuratamente a Roma è lo stesso del Vaticano. Si fa ipnotizzare per venti minuti da Pannella. Sorride, arrota suadente l'accento compagnone emiliano. Bacia e abbraccia Emma, «io l'ho voluta candidare». Parla di «rispetto, autonomia, amicizia». Promette di spendersi per rivedere le regole di presentazione delle liste elettorali e «perché possiate andare in televisione». «Ma presentiamoci alle elezioni, non rinviamo: abbiamo mobilitato un popolo, adesso l'opinione pubblica è con noi».
Pannella lo riipnotizza per altri venti minuti. Ma Bersani sa che la battaglia radicale è giusta. E che Emma non si ritirerà. Dice solo, «Eh, ma vent'anni fa chi me lo avrebbe detto che avrei
avuto la fortuna di stare con Pannella per un'ora...». E Giacinto detto Marco, prontissimo: «Nessuno, sennò non ci saresti venuto».
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