
05/11/10
L’espresso
Ora? Ma se sono col dottore che mi sta facendo le analisi, sono in sciopero della fame e della sete. Più tardi? Ho qui sotto una macchina che mi aspetta per andare a Chianciano al congresso radicale. Domani? Domani chissà come sto. E chissà dove sono, forse a Roma, forse a Bruxelles...». Con Marco Pannella va così, è sempre andata così. Un piccolo inseguimento quasi a certificare che si desidera davvero parlargli ed eccolo il ragazzo di ottant’anni tondi, capelli bianchi a coda di cavallo e quegli occhi azzurro-siluro seduto su un gradino mentre sbraita contro qualcuno che ha sbagliato la parola. «Protesta? Le proteste le farete voi, io faccio proposte». Attorno, abituati, scuotono la testa i premurosi militanti radicali che gli fanno ala: «Ha un calo degli zuccheri». Esagerato, irascibile, indispensabile Marco. Meglio lasciarlo solo sul gradino e aspettare che il generale si riprenda. La sua truppa sa come fare, lo conosce. Certo fa impressione quell’attimo di solitudine in mezzo a gente che lo ama, lo vorrebbe coccolare ma ha imparato a rispettarne gli umori. Va in un banco anonimo del congresso (titolo "Onestà, legalità", parole fuori corso nell’Italia contemporanea) a seguire le relazione come fosse uno qualsiasi e non lo è. Anche questo è un piccolo vezzo. Arriverà il momento in cui salirà sul palco, dirà e lo osanneranno. Dei suoi scioperi si è perso il conto, lui stesso lo ha perso. Questo ultimo è particolarmente complicato perché riunisce assieme diversi temi: lo stato della giustizia e delle carceri in Italia, la richiesta di una commissione d’inchiesta sulla guerra in Iraq (non mangia dal 3 ottobre); la sospensione della pena di morte per Tareq Aziz (non ha bevuto dal 27 ottobre al primo novembre, finché il ministro degli Esteri Franco Frattini non gli ha promesso che andrà con lui a Baghdad a perorare la causa). Stringe tra le mani il fresco libro di Valter Vecellio "Marco Pannella, biografia di un irregolare" (Rubettino, 286 pagine, 18 euro), «una gradita sorpresa». Un panegirico. Una lunga cavalcata in 55 anni di politica che sono passati ma anche no se Pannella è sempre uguale e rivendica: «Non conosco idee che mi sembrino meno inadeguate delle nostre». Ha visto morire ideologie che sembravano trionfanti, cancellare partiti che sembravano eterni «e noi oggi siamo il più vecchio partito nato in questo Paese, credo vedremo scomparire anche quelli che ci sono adesso». È orgoglioso di riconoscersi in quelle «millecinquecento teste di cazzo (tanti sono gli attivisti radicali, ndr) che senza potere e senza quattrini rappresentano una realtà straordinaria». Non indugia sui sexy-scandali dei premier, preferisce bollarlo come un «povero imbecille erede di quella partitocrazia che ha distrutto la Costituzione ed è la vera peste italiana». Eppure ci passò un Capodanno, presente Veronica, sulle nevi di St. Moritz. Altra epoca, quando pensava che il Cavaliere potesse portare davvero una rivoluzione liberale e ne nacque una breve alleanza. Linguaggio crudo, ostico, all’occorrenza ironico e sarcastico: « Ho visto in tv monsignor Fisichella e monsignor D’Alema che gli chiedeva cosa aspettava la Chiesa a scomunicare Berlusconi. Robaccia, robetta». Ok, ma se questi sono i leader perché, alternativamente, fanno maggioranza, governano, hanno consenso e i virtuosi radicali galleggiano sempre attorno all’1 per cento? Non è che Pannella trovi una perversa bellezza, un godimento nell’essere esigua minoranza? «Quando godo, godo per cose che ne valgano davvero la pena, se permettete». Ed è la parte acida che precede quella politica: «Dopo sessant’anni antidemocratici, retti da farisei della democrazia che ci negano tutto, a cominciare dall’accesso ai media, che ci siamo è già un miracolo». Respinge anche l’accusa di svilire lo strumento dello sciopero della fame a causa della sua reiterazione continua e per i svariati motivi: «Dicevano così anche per i referendum e l’ultima volta che li abbiamo promossi abbiamo raccolto 700 mila firme per 24». Peccato che poi la gente non vada a votare e non si raggiunga il quorum: «La gente ci aveva preso gusto, ne avrebbe voluti anche di più solo che la Corte costituzionale ha funzionato come un golpe continuo dei colonnelli. Si stravinceva, come ad esempio sul finanziamento pubblico dei partiti e poi...». Poi tutto annullato con altre leggi che aggirano la volontà popolare, sappiamo. Ma qui si vuol capire di scioperi della fame e di una certa saturazione, del riflesso per cui in molti pensano "e basta, che la smetta": «Per forza. Dopo un po’ che digiuno cominciano a preoccuparsi e prendono dall’archivio una foto in cui sono molto grasso la schiaffano in pagina con scritto: sta molto male. Senza mai parlare degli obiettivi che sono sempre importanti». Recrimina, Marco, di non aver mai avuto un dibattito serio in televisione con un medico, uno scienziato: «I telespettatori apprenderebbero un mucchio di cose su cosa significa non provare la fame, la sete a un certo punto». Sarebbe un corso di teoria e pratica della non violenza declinata sul corpo, il patrimonio che Pannella ha usato fin dall’inizio. Corpo recluso per qualche forma di disobbedienza (fumare spinelli), corpo mortificato nel piacere di alimenti e bevande per fini sempre «straordinari», il vocabolo che preferisce. Perché Marco è un’iperbole, una provocazione. Il suo parametro è il vasto pianeta. Sostiene senza deflettere: «Noi radicali siamo maestri, abbiamo fatto crescere, per qualità, l’impostazione gandhiana. Perché il Mahatma era solo. Noi, in molti. Io mi sottopongo a tre analisi mediche al giorno quando sciopero». Chiosa Emma Bonino, la fedele compagna di tante battaglie, l’unico dualismo all’interno del partito che abbia resistito: «Marco fa gli scioperi per vivere non per morire». Anche, spesso, per ottenere che il potere faccia seguire i fatti alle parole, rispetti le leggi che si è dato e che trasgredisce. E allora quella postilla che aggiunge "ad oltranza" e che sembra certificare l’irreversibilità? «Significa finché ce la faccio». Tribunale internazionale, fame nel mondo, moratoria sulla pena di morte, fine delle mutilazioni genitali femminili. Traguardi alti e universali. Adesso vorrebbe una commissione italiana per far luce sulla guerra in Iraq, il perché non fu mai valutata la possibilità che Saddam Hussein andasse in esilio e si evitasse il conflitto. Marco Giacinto Pannella si accende un sigaro in una saletta del congresso dove sarebbe vietato. Aspira, la bocca gli si impasta ancora di più. Chiede: «Hai visto le prove?». Ordina che vengano stampate. È un dossier, «che abbiamo raccolto già da tre anni, in cui appare chiaro ciò che sosteniamo da sempre e cioè che era possibile la soluzione dell’esilio». Date, circostanze, rivelazioni, compresa la trascrizione della conversazione tra George Bush e José Maria Aznar al ranch di Crawford del 22 febbraio 2003. Da cui si evince che gli americani in battaglia volevano andarci comunque e non si sarebbero accontentato dell’esilio. Che poi l’ipotesi fosse davvero praticabile è altra storia. Ma Pannella insiste e del resto quella fu un’idea sua. Vorrebbe che finissero alla sbarra «Bush, Blair, Aznar e Berlusconi». Ma perché è importante ristabilire la verità ammesso che sia la verità, che il dittatore iracheno fosse davvero disposto a farsi deporre, a sette anni di distanza? «Io lo devo fare. Sono stato insultato tutta la vita perché considerato il più americano, il più israeliano. E oggi voglio dire che il mio presidente Bush (alza la voce, ndr) ha tradito la bandiera e la fiducia dei repubblicani». Perché nessuno si accoda? «Perché D’Alema, il solito D’Alema direbbe che non è strategico». Imputa alla classe politica una quota di cinismo che le impedisce di sognare e di volare. Ritiene, al contrario, il suo volo tarpato dall’impossibilità di comunicare: «Continuano ad avere paura che io vada in tv perché quando parlo i cittadini mi comprendono. Si fidano. Se Enrico Berlinguer o Giovanni Paolo II dicevano ai giovani: "non drogarti, non farti una pera", quelli se ne facevano due. Se io gli dicevo: "aspetta, non fartela", quelli aspettavano». Pannella, si vede, ha una benevola considerazione di se stesso. Ora vorrebbe salvare dal patibolo Tareq Aziz, «il Caino Tareq Aziz che forse era addirittura peggio del suo capo». Teme, e dagli, che lo facciano fuori perché ultimo testimone scomodo che potrebbe confessare: «È vero, Saddam sarebbe andato in esilio se gli avessero concesso questa chance». Come se non fossero altre le logiche in un Iraq devastato dalle contrapposizioni etniche e di potere. Partirà con Frattini per Baghdad e chissà se avrà ripreso a mangiare nel frattempo. Perché c’è sempre quell’altro motivo, invece tutto italiano, per cui digiuna. Lo stato della giustizia, quegli undici milioni di processi civili che non si celebrano e, ammazzano la vita di tutte le famiglie, di quel ceto medio che non ha consuetudine con avvocati di vario genere». E poi le carceri sovraffollate, dove i detenuti muoiono «ed è la nostra Shoah». Non è eccessivo, Marco, il paragone con quella lucida pianificazione statale di un genocidio? «Ribadisco. Le carceri sono nuclei consistenti di Shoah che stanno dilagando non solo in Italia e spero si possa sconfiggere questa metamorfosi del male. Non voglio nemmeno discutere su questa mia affermazione. Registratela spiegando le vostre ragioni sul perché vi sembra un paragone sbagliato. Io opporrò i miei motivi». E se ne va barcollando, malcerto sulle gambe. Con la consapevolezza, speriamo, di averla sparata grossa.
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