
La proposta del primo ministro inglese Gordon Brown di tassare la speculazione finanziaria è letteralmente caduta nel vuoto e non poteva che essere così.
Quella che più di venti anni fa prese il nome di Tobin tax dal suo proponente il premio nobel James Tobin, divenuta nel frattempo uno dei simboli dei “no global”, ha una tale difficoltà di applicazione che anche i maggiori sostenitori si accorsero rapidamente della sua impraticabilità che si è ulteriormente accentuata con la globalizzazione e la conseguente liberalizzazione dei movimenti di capitale.
Colpire i flussi finanziari speculativi che muovono ogni giorno trilioni e trilioni di dollari è pressoché impossibile. Tutto ciò non poteva non essere a conoscenza di Gordon Brown che è stato anche cancelliere dello scacchiere. Ed allora quale significato dare a questa solitaria iniziativa messa improvvisamente sul tavolo della riunione dei ministri finanziari e dei governatori delle banche centrali del G.20 riuniti nella tranquilla località scozzese di St. Andrews? Da un lato ci sono indubbie ragioni di politica interna essendo alla vigilia delle elezioni che lasciano prevedere una secca sconfitta dei laburisti ma dall’altro lato questa improvvisa sortita è la testimonianza di una impotenza della politica che da più di due anni dinanzi alla più grande crisi finanziaria, maggiore anche di quella del 1929, altro non ha saputo fare che immettere nel sistema bancario assicurativo internazionale migliaia e migliaia di miliardi di dollari. Insomma si è intervenuti, giustamente, a curare i sintomi per evitare guai maggiori ma nulla si è fatto per ricondurre la finanza internazionale al suo ruolo naturale di sostegno all’economia reale.
Il problema, infatti, è quello di ridurre la finanziarizzazione dell’economia e non, come spesso si è detto in Italia, quello di contrastare la globalizzazione che, al contrario, sul terreno del rilancio della domanda e della produzione mondiale rappresenta l’unica via d’uscita. Qualche giorno fa Emma Bonino e Marta Dassù in un lungo articolo sul Corriere della Sera, sollecitavano l’Europa a rilanciare il proprio ruolo per evitare che nel quadro internazionale, al di là dei rituali dei G.20 e dei G.8 la nuova governance diventi di fatto il G.2, e cioè Usa e Cina. Una preoccupazione forse esagerata visto gli altri grandi attori nell’economia internazionale, dall’India al Brasile per finire all’Africa e alla stessa Europa.
Tuttavia non c’è dubbio che il peso politico del vecchio continente o è legato a proposte di grande respiro o diventerà sempre più marginale. Le due linee di fondo che l’Europa dovrebbe sostenere sono:
a) Una serie di divieti ai mercati, dall’uso smodato della leva finanziaria alle vendite allo scoperto, dai futures sulle materie prime a quello di immettere nel mercato bancario retail i derivati, per contenere la vocazione a fare del denaro una vera e propria industria a se stante fuori e spesso in contrasto con l’economia reale. Questi divieti o limitazioni sono molto più facili da gestire che non le tassazioni tipo Tobin tax
b) Un nuovo sistema monetario mondiale che ricalchi la positiva esperienza del serpente monetario europeo. Insomma un sistema flessibile dei cambi che limiti fortemente l’instabilità e l’asimmetria finanziaria internazionale con una parità centrale da concordare tra le sei-sette monete più importanti del mondo e con una loro oscillazione sopra e sotto della parità di trequattro punti.
Un sistema di questo tipo ridurrebbe di colpo una delle speculazioni, quella valutaria. Linee di questo tipo, forti ed innovative, cozzeranno certamente con i grandi interessi finanziari ma è questa la partita che la politica mondiale sarà costretta a giocarsi. Già troppo tempo è passato e quanto più tardi avverrà lo scontro tanto più difficile sarà sconfiggere la finanziarizzazione dell’economia che arricchisce pochi e impoverisce molti perché toglie valore ai prodotti, all’industria, al commercio ed al lavoro per darlo alla finanza.
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