
20/09/10
la Repubblica
Non è vero che nella sinistra italiana ci siano troppi conflitti. È solo una impressione. Falsa. Ci sono invece molte «beghe», parola di origine gotica, che indica fastidiose liti, per le quali il Devoto Oli esemplifica: tipiche quelle «tra suocera e nuora». E vero che si litiga, ma niente duelli, la lite si ferma sempre prima della minima contusione.
E così la antica compagnia di giro, che guidava la Federazione giovanile comunista quando Berlusconi esordiva nell'edilizia milanese, continua il suo giro. È vero che ogni tanto si affacciano le «primarie», parola truculenta che indica un duello all'ultimo sangue (se uno ha in mente quelle americane), dove c'è chi vince e c'è chi perde. Ma qui da sottolineare è la parola «perde», perché le nostre primarie si tengono generalmente quando si sia messo ben in chiaro, «prima» - un'etimologia alternativa? - chi le vincerà. E dove non c' è mai davvero chi l e «perde». Onore al merito perle prestazioni passate di Letta e Bindi, o Marino e Franceschini e altri coraggiosi, ma non furono mai duelli per il primo posto. Non che fossero per questo del tutto inutili, avevano una funzione mobilitante, ma non servivano allo scopo per cui sono state inventate: la «selezione», parola crudele e darwiniana, che - duole constatare - indicala necessità di migliorare la specie, nel nostro caso la leadership, attraverso la lotta.
L'enigma di una sinistra e di un Pd che rimangono «in attesa» e privi di «appeal» (come ben rimarcato ieri da Scalfari) anche quando declinano palesemente i consensi della destra si può spiegare con molte ragioni, ma certo anche con la mancanza di una competizione aperta per la leadership. Questa non avviene e il primato è reso in sostanza non contendibile adopera di gruppi dirigenti che si sottraggono al duello. Astuzie da vecchi democristiani, i quali però stettero al potere, non all'opposizione, per qualche decennio. Alle primarie del 2007, che insediarono Veltroni segretario, il possibile candidato dalemiano, Bersani, si sottrasse, in obbedienza alla sua affiliazione, e se ne rammaricò in seguito pubblicamente (una «cavolata», disse centrando pienamente il bersaglio). Se avesse dato battaglia, e se altri l'avessero fatto con lui, avrebbe reso più forte se stesso (allora e oggi) e il Pd.
Ha atteso un momento apparentemente più propizio. Ma lo è davvero? L'elettorato apprezza le battaglie aperte etributaprestigio e consensi a chi appare più capace di lanciare la sfida sia all'interno della sinistra e del centro-sinistra, sia nei confronti dell'altra parte politica, come è apparso chiaro nella vicenda delle candidature di Vendola in Puglia e di Renzi a Firenze. E anche i duelli per interposta persona eludono una vera contesa. Dove porterà ora un nuovo «movimento» guidato da Veltroni che innalzi però l'effigie non dell'ex segretario, ma quella di un altro? Come non vederci un ennesimo tentativo di evitare possibili contusioni? Altro che combattimenti e divisioni del Pd. Beghe. Una leadership forte e carismatica non arriva come premio di anzianità o di fedeltà gregaria a una corrente, va guadagnata con il coraggio di gettare il guanto in faccia all'avversario. La sistematica elusione del conflitto non fa che prorogare (davanti e dietro le quinte) i soliti in carica, tenacemente legati a una concezione della politica come «posto fisso», con quel che ne segue per il loro entourage e i costi che ne derivano.
Il maggiore di tutti i costi è la perdita di credibilità dei leader del centrosinistra come «sfidanti» di Berlusconi: si richiedono capitani coraggiosi per una difficile guerra di movimento e si trovano soltanto gestori di una gloriosa ma insufficiente eredità; si richiede intraprendenza e si offre sopravvivenza, c'è da affrontare un duello e ci si ritrova con specialisti della mediazione. C'è da governare il mondo della flessibilità, del rischio di impresa, della precarietà e della perdita del lavoro. E c'è poca voglia in giro di affidarsi a cultori inamovibili del posto fisso. Se si ritiene che Bersani non sia in grado di battere Berlusconi davanti all'elettorato, non c'è nulla di offensivo nel dirlo assumendosi in pubblico il peso di una sfida, che servirà anche a misurarne le forze. Una soluzione vincente, se c'è, potrà uscire solo da una competizione dichiarata, nelle prossime primarie per il candidato premier, e non potrà essere il risultato di una ingegneria delle correnti, interne o esterne al Pd.
Ha ragione Sergio Chiamparino con il suo libro che si intitola appunto La sfida: è indispensabile una rottura con le vecchie abitudini di gruppi che si auto perpetuano al comando del Pd e che lo hanno consumato fino a renderlo forse inservibile. Il ricambio è ostruito e va liberato. I leader in carica, che stiano in scena in proprio o non, non sono necessariamente i peggiori, ma urgono misurazioni e confronti attraverso quella lotta che è impedita e temuta. Per dare credibilità alle sue tesi, e non abbandonarle in libreria, occorrerebbe che il sindaco di Torino (a proposito di paure, alla festa del Pd non l'hanno neppure chiamato a dare un saluto prima del rituale comizio di chiusura) inizi la sua di battaglia, candidandosi e non rimanendo indefinitamente allo stato di ipotesi. I movimenti incorso, probabilmente innescati anche solo dall'ipotesi e dai sondaggi, tendono a evitare rese dei conti, per sempre. E invece le democrazie - lo riconoscono anche i più realisti alla Schumpeter - per quanto siano difettose hanno bisogno, per restare tali, di élite competitive e «inclusive», il che significa che si deve potervi entrare e che qualcuno deve accomodarsi fuori, per far posto ai nuovi. La politica italiana soffre già, sulla destra, di «posizioni dominanti» sulle quali non è il caso qui di tornare. Ma uno sguardo dell'«antitrust» farebbe bene anche alla sinistra.
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