
La candidatura di Emma Bonino alla presidenza della Regione Lazio, piaccia o no, riapre la “questione cattolica” all’interno del Partito democratico. Non solo per l’aperto dissenso mostrato da alcuni parlamentari, ma soprattutto per i tanti cattolici che vi hanno aderito (dopo averlo anche “fondato” come forse qualcuno ricorda) attraverso un percorso tormentato e che adesso può apparire loro come un susseguirsi di promesse non mantenute.
Un percorso che, a questo punto, sembra giunto ad una contraddizione resa possibile dalla concreta mancanza (tranne questo foglio che è sempre stato aperto alla discussione e al dissenso) di luoghi di confronto, perché tali non possono definirsi i piccoli gruppi di uno o di un altro “leader”.
Credo di non essere il solo “fondatore” del Pd proveniente dalla Dc prima e poi dal Ppi, che negli anni si è opposto, in nome della propria ispirazione ideale, alla cultura laicista e radicale della quale la Bonino è stata ed è una delle principali e storiche figure. E in proposito ricordo (e non capisco come qualcuno lo abbia dimenticato) di avere molte volte ascoltato Marini e le tante altre personalità provenienti dalla Dc e dal Ppi, fare della critica al pensiero radicale un punto distintivo della propria identità politica (basterebbe per tutti ricordare come esempio lo storico scontro televisivo sull’aborto tra la Jervolino e la Bonino). Né si può dire – come potrebbe fare comodo – che si tratta di battaglie del passato, perché non si può non ricordare l’esistenza di questioni di rilevanza etica ancora aperte nell’agenda politica e sulle quali i radicali non hanno mai dismesso alcun punto del loro pensiero in proposito.
Né basta dire semplicisticamente che quella della Bonino è solo una candidatura di carattere amministrativo. Per due motivi: il primo è che con buoni requisiti “amministrativi” non c’è solo la Bonino; il secondo – molto più importante – è quello del merito della amministrazione (cosa che distingue le elezioni dai concorsi per dirigenti).
I poteri conferiti alle Regioni nell’ordinamento italiano, infatti, non sono politicamente indifferenti: basterà ricordare in proposito (come ha osservato Rutelli in una intervista al Corriere della Sera) il carattere decisivo della spesa sanitaria e delle tante altre voci di spesa sociale, sulle quali, come è il caso della famiglia, la cultura di ispirazione cristiana e il pensiero radicale non solo divergono, ma sono contrapposti.
Una diversità sostanziale che sarebbe colpevolmente riduttivo attribuire ai cattolici come integralismo o, peggio, tradizionalismo.
È giunto il momento, infatti, nel quale i tanti cattolici democratici del Pd si facciano laicamente interpreti delle ragioni profonde dell’ispirazione con la quale è sin qui loro convenuto definirsi ed essere definiti. Il silenzio o il supino assenso a questa candidatura così divergente dal loro pensiero, infatti, può segnare – e io spero ancora che così non sia – un passaggio decisivo verso la loro insignificanza nel centrosinistra. Non tanto per la diversità culturale della persona prescelta (che in un sistema bipolare è quasi scontata), ma, appunto, per non averla apertamente discussa e, peggio, per non avere avuto il coraggio di proporre almeno un’alternativa, come è giusto che avvenga in un partito tanto “plurale”. Altri politici cattolici hanno minacciato di stracciare la tessera presa a suo tempo, la mia proposta è un’altra: non stracciare nulla, ma pretendere proprio in forza di quella tessera resa più credibile dal non avere né incarichi di partito né laticlavi, il diritto di discutere e di vedere rispettate fino in fondo quelle ragioni che furono riconosciute importanti al momento della fondazione del partito.
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