
14/10/10
Europa
Belgrado, durante il Gay Pride dello scorso weekend. Genova, l'altro ieri. Gli hooligan, devastando la capitale serba e impedendo lo svolgimento della partita di calcio tra la loro nazionale e quella italiana, sono stati gli indiscussi protagonisti della recente agenda mediatica e internazionale, offrendo con la loro carica facinorosa una brutta immagine della Serbia. Il punto è proprio questo: sono suscettibili, i misfatti belgradesi e genovesi, di rovinare la reputazione serba all estero, cancellando quanto di buono ha fatto il paese negli ultimi anni in chiave di democratizzazione e integrazione Ue? Sono tali da indurre l'opinione pubblica europea a credere che la Serbia continua a essere la solita vecchia Serbia?
L'ex ministro degli esteri Gianni De Michelis, che ieri era proprio a Belgrado, dove con l'Ipalmo, il think-tank che presiede, ha animato la tavola rotonda "Italia e Serbia, una partnership strategica", sostiene che «il rischio c'è e c'è chi in Italia e in Europa cercherà di "approfittarne". Eppure non c'è ragione di credere che tutto questo possa rallentare un processo consolidato, che in questi anni ha portato la Serbia a trasformarsi e a migliorarsi». Levigando, tra le altre cose, i propri umori nazionalisti. «Penso - parla sempre De Michelis - che più che i tumulti genovesi sia importante ricordare a livello politico che una grossa fetta del Partito radicale (la formazione più oltranzista del parlamento serbo, ndr) ha operato una scissione, formando il Partito progressista e aprendo all'idea della prospettiva europea. Questo indica il cambiamento in corso». Luka Zanoni, direttore di Osservatorio Balcani e Caucaso, testata online che segue con estrema attenzione le vicende dell'ex Jugoslavia, è dello stesso avviso.
«Il pericolo che si torni a pensare alla Serbia d'una volta c'è, perché gli scontri durante il Gay Pride e la partita di Genova hanno avuto ampia risonanza sui media e qualcuno potrebbe pensare che la Serbia sia una nazione di pazzi e di barbari. Però ritengo che l'Europa s'è fatta un'altra idea della Serbia, come dimostra la liberalizzazione del regime dei visti e gli avanzamenti - lenti, ma comunque avanzamenti - sul piano dell'integrazione». Sulla stessa lunghezza d'onda si sintonizza Miodrag Lekic, già ambasciatore jugoslavo in Italia, oggi docente alla Luiss. Lo sfoggio di radicalismo di questi giorni, ci dice, «potrebbe saldarsi a vecchi pregiudizi, ereditati da stagioni passate. Ma oggi la Serbia è una nazione migliore e a Belgrado quello che questi fanatici hanno combinato ha suscitato forte disagio e senso di vergogna».
Vergogna è tra l'altro la parola che l'ambasciatrice serba a Roma, Sandra Raskovic-Ivic, ha usato nel comunicato ufficiale con cui ha offerto all'Italia le scuse sue, del governo e del popolo serbo per quanto avvenuto a Genova. «Il fatto che i disordini si siano prodotti in Italia - annota Lekic - addolora molto, perché la Serbia considera l'Italia un paese vicino e amico». Dunque, riassumendo. In questi giorni la ribalta mediatica ha portato una dote scomodissima a Belgrado. Ma guai a farsi ingannare: benché estremismo e teppismo conservino una loro evidente forza la Serbia di oggi è lontana anni luce dalla Serbia di ieri. La Serbia di oggi ha un presidente (Boris Tadic) e un governo che hanno sposato la causa europea e una maggioranza silenziosa che, al contrario della minoranza rumorosa, vuole l'Europa. Europa che, afferma Famiano Crucianelli, sottosegretario agli esteri nella scorsa legislatura, dovrebbe comunque ragionare su queste vicende. «Se è vero che il radicalismo è un tormento che la Serbia si porta ancora appresso, c'è da dire che questi sfoghi possono anche essere letti come una reazione a qualche atteggiamento discriminatorio che qualcuno in Europa ha mostrato e mostra ancora nei confronti di Belgrado».
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