
22/10/10
l'espresso
Il cammino verso il federalismo fiscale era già cominciato male l'anno scorso, con una legge quadro approvata nel più fitto buio contabile da un parlamento che l'ha votata senza che il governo si degnasse di presentare una pur sommaria indicazione del rapporto fra costi e benefici perla finanza pubblica. L'oscurità si sarebbe diradata su questo punto non secondario - assicurò allora il ministro Giulio Tremonti - nel momento in cui si fosse passati ai decreti attuativi.
Mentre il presidente del Consiglio non perse l'ennesima occasione di promettere che il nuovo regime avrebbe portato comunque a una riduzione delle imposte per i cittadini. Ora che dai buoni ma vaghi propositi si sta passando alle decisioni concrete le cose stanno procedendo di male in peggio. Anziché cominciare dal mettere ordine sul fronte della spesa degli enti locali, che costituisce la principale fonte di pericolo per gli equilibri contabili delle regioni, Tremonti e Silvio Berlusconi hanno deciso di iniziare dal versante delle nuove regole tributarie. Scelta poco logica, ma addirittura sorprendente per le sue indicazioni specifiche. Soprattutto perché il progetto governativo - alla faccia delle promesse di Berlusconi spalanca alle regioni la porta per nuovi e non piccoli aggravi delle imposte addizionali, con l'aggravante della facoltà ad operare uno scambio dal sapore odiosamente classista fra tagli all'Irap a beneficio delle imprese e aumenti delle tasse per i lavoratori.
Per dissimulare la minaccia implicita di un incremento della pressione fiscale, che è poi la vera sostanza dei decreto, il governo ha fatto ricorso ad un penoso marchingegno inserendo nel testo la cosiddetta «clausola di invarianza», in ossequio alla quale le regioni potranno sì aumentare, per esempio, il peso delle addizionali, ma alla ferma condizione di diminuire qualche altro prelievo in modo da ottenere come risultato finale che la pressione fiscale complessiva risulti alla fine almeno immutata. Sarebbe bello poter credere all'efficacia di una simile trovata, se non fosse che i precedenti al riguardo depongono tutti in senso diametralmente opposto.
La memoria storica ricorda che un'analoga questione fu sollevata durante i lavori dell'Assemblea costituente con riferimento agli equilibri della finanza statale. Per mettere questi ultimi al riparo da decisioni pericolose fu inserito nel tanto celebrato articolo 81 della Costituzione un comma secondo il quale ogni legge «che importi nuove e maggiori spese deve indicare i mezzi per farvi fronte». Formula di straordinario e impeccabile rigore contabile - proposta e voluta da personaggi del calibro di Luigi Einaudi ed Ezio Vanoni - ma che non è certo servita a impedire alle finanze della Repubblica di accumulare nel tempo un debito che ormai si sta avvicinando ai 1.850 miliardi di euro, pari a quasi il 120 per cento in rapporto al Pil. E oggi, dopo questa amarissima esperienza, gli italiani dovrebbero prestar fiducia alla «clausola d'invarianza» escogitata da Tremonti? Se non l'intelligenza, almeno il portafoglio dei contribuenti meriterebbe un maggiore rispetto da parte del ministro e dei suoi sodali leghisti.
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