
C’è una sola nazione nell’area geografica europea che mantiene la pena di morte nonostante il suo presidente-dittatore Alexander Lukashenko, che la governa da decenni con il pugno di ferro, sostenga di non sapere perché. Nella cupa Bielorussia questo dato, già gravissimo di per sé, è diventato ancora più allarmante perché il ricorso alla pena capitale è in costante aumento. "La gente in Bielorussia è costretta a vivere in un clima di paura, perché tribunali ‘guidati politicamente’ stanno emettendo condanne a morte", ha dichiarato Miklos Haraszti, inviato speciale Onu appena rientrato da Minsk. Le violazioni dei diritti umani nel paese a est dell’ex Cortina di ferro sono tante, ma la crescita delle esecuzioni ha peggiorato ulteriormente la situazione, come denunciato anche da Amnesty International e Nessuno tocchi Caino.
Secondo le Ong Lukashenko utilizza la pena di morte per togliere di mezzo i suoi oppositori. Qualche giorno fa sono state uccisi, con un colpo di pistola alla nuca, 5 carcerati mentre 3 condanne a morte sono state confermate per persone riconosciute colpevoli di omicidio. L’inviato Onu ha spiegato che "è inaccettabile che i bielorussi debbano vivere nel timore che tribunali non trasparenti e politicamente guidati pronuncino condanne a morte senza garanzie di processo equo o diritto di appellarsi agli organismi internazionali". Il caro leader, molto apprezzato da Silvio Berlusconi - unico premier occidentale ad avergli fatto visita e invidiato perché "molto amato dai suoi cittadini" - ovviamente sostiene il contrario. "La pena di morte non è una cosa buona e non so perché qui viga ancora - ha detto Lukashenko - ma talvolta è necessaria per la sicurezza dei cittadini". Come ritiene necessaria "l’autodifesa" visto che nel taschino del figlio 12enne, il delfino del dittatore, c’è sempre una pistola. I condannati vengono uccisi dopo essere stati avvisati della imminente fine solo pochi minuti prima. Ai familiari non viene detto né quando verrà eseguita la sentenza né dove verranno sepolti i parenti.
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