
24/03/11
Il Foglio
Le celebrazioni dei 150 anni dell'Unità d'Italia sono filate via abbastanza bene, smentendo le previsioni piuttosto pessimistiche sul come gli italiani vi avrebbero partecipato. Le iniziative ufficiali sono state sobrie ed efficaci, si sono viste anche, qua e là, spontanee manifestazioni di gente comune sorridente e partecipativa, bandiere tricolori sono sbocciate alle finestre, meno di quanto si potesse desiderare però forse un po' più di quanto fosse ovvio temere. Le considerazioni più negative e acide mi pare siano state quelle sciorinate dalla stampa straniera. Ahimè, all'estero l'Italia ha uffici stampa negativi, stimolano solo l'adulazione d'obbligo: "Oh, sì, bella Firenze, bella Venezia, bella Roma", ecc.
Contentiamoci. Rilassati, possiamo ora rileggerci spassionatamente il messaggio che per l'occasione Papa Benedetto XVI ha inviato a Giorgio Napolitano, presidente della Repubblica. Ne ho discusso a Radio radicale dopo averlo letto e annotato, diligentemente, sull'Osservatore Romano. Alla domanda se mi avesse soddisfatto o non piuttosto deluso, ho risposto che se non mi ha soddisfatto nemmeno mi ha deluso. Per me, quello è un documento a carattere diplomatico, dai contenuti e lo stile propri al genere. Altri interlocutori del dibattito radiofonico hanno osservato che esso presenta un notevole risvolto storico storiografico, con l'ambizione di ripercorrere la storia "più che millenaria" dei rapporti tra l'Italia e la chiesa. A questi commentatori lo scritto papale appare troppo irenico: i rapporti tra i due soggetti non sono stati sempre idilliaci. Piuttosto, a volte, anche "drammatici", di una drammaticità su cui il documento sorvola. Mi sono trovato d'accordo con una lettura del genere, e ho anzi rincarato: a mio avviso, infatti, il senso storico - e politico - del documento papale è chiaro, fin dal titolo di prima pagina con il quale viene presentato sull'organo ufficioso della Santa Sede: l'Unità d'Italia è il "naturale sbocco dell'identità nazionale". Addirittura, "l'identità nazionale degli italiani, così fortemente radicata nelle tradizioni cattoliche, costituì la base più solida della conquistata unità politica". Come dire, l'unità politica "realizzata centocinquànt'anni fa" è una conseguenza del fatto che già da secoli esisteva una "identità nazionale" italiana, e questa è stata resa possibile dal suo radicamento nella fede e nella chiesa romana. La chiesa deve rivendicare una sua parte in commedia e sceglie questo argomento. Che però è discutibile. Allo stesso titolo si potrebbero rivendicare quelle origini cattoliche alla Francia laicista e senza Concordato come pure alla Germania e all'Inghilterra, paesi protestanti. Non è difficile scoprire anche altre falle nel documento.
È vero, per esempio, che il contributo dei cattolici al moto "passato alla storia con il nome di Risorgimento" (una sottolineatura un po' acida, che mi ha richiamato alla mente lontanissime, ottocentesche polemiche della Civiltà cattolica) è stato fortissimo, direi indispensabile. Ma quei credenti divennero fautori dell'unità italiana dopo aver abbandonato l'utopia neoguelfa della federazione italica a guida papale, vanificata dalla sconfitta delle speranze quarantottesche nel Papa liberale. È ovvio che il Papa non potesse essere liberale, non rimprovero a Pio IX la clamorosa retromarcia, ma l'amara constatazione non rappresentò un freno per i cattolici liberali e unitari del tempo, in primis Cavour (che il documento papale non cita mai). Mi pare che qualcuno di loro impiegò anche la forza, e i carabinieri, contro chi si opponeva o intralciava il disegno unitario e laico. Infine: il testo elogia l'Accordo concordatario del 1984 "che ha contribuito largamente a garantire una 'sana laicità', mentre non vi appare il termine "liberale" se non quando esalta la figura di san Giovanni Bosco, modellatore di una "sana concezione liberale".
Corte europea e crocefisso
Pochi giorni fa, la Corte europea per i diritti dell'uomo ha deliberato che il crocefisso appeso alla parete di un'aula scolastica non viola la libertà di pensiero degli alunni, né quella dell'educatore. Molti sono insorti contro la sentenza. Io non insorgo, anche se Strasburgo non mi trova d'accordo. Ma in America, dove ogni discorso presidenziale finisce con un "in God we trust", credo che nelle scuole pubbliche non sia consentito esporre alcun simbolo religioso. A differenza dell'Europa, gli Stati Uniti sono un paese poco laicista, ma molto laico.
Per una pura coincidenza temporale, ci troviamo a parlare assieme di due diversi simboli. I simboli sono tali per chi vi crede. Alla bandiera italiana non molti credono, i più sono indifferenti. È obbligatoria per gli edifici pubblici, ma il 17 marzo non sono stati mandati in giro poliziotti per costringere la gente a esporla alle finestre. Penso che lo stesso si possa dire del crocefisso. Renderlo obbligatorio per tutti, anche ignorando la loro "percezione personale" (come è stato fatto per la signora che si è rivolta alla Corte europea) sarà pure molto costantiniano ma non è bello. Il crocefisso non è il segno di una identità nazionale, ma di una identità esistenziale. O dovrebbe esserlo.
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