
Eccolo il contagio di cui bisogna avere paura. Quello che dalla potenziale sfiducia nell'euro si travasa, maligno, all'economia reale. Guai se la guerra dello spread contamina le aspettative sulle imprese, le valutazioni sul loro merito di credito e, giorno dopo giorno, le fa diventare più severe e irrazionali fino a prosciugare i canali di accesso ai finanziamenti.
La Bce lancia l'allarme sul rischio di insolvenza delle imprese italiane, ma usa un indicatore che considera solo gli scostamenti tra debito e capitalizzazione delle aziende quotate. È vero che in Italia aumentano i fallimenti, ma l'economia reale, che non viene registrata nei listini di Piazza Affari pur essendo la vera spina dorsale dell'economia nazionale, combatte ogni giorno non solo per la propria sopravvivenza, ma anche per il proprio sviluppo. I distretti, le Pmi, le multinazionali tascabili del made in Italy finora hanno tenuto i mercati esteri e conquistato nuovi approdi per sfuggire al drammatico calo della domanda interna.
Ora l'allarme di Francoforte rischia esso stesso di far cadere un'ombra lunga sulla speranza di crescita. Ciò che conta davvero è, però, l'analisi di partenza di Eurotower: lo spread tra titoli sovrani è di innesco a un altro spread, quello tra i diversi tassi nel costo di accesso al credito per imprese concorrenti di Paesi diversi. Un "travaso" tanto insensato quanto devastante per la nostra competitività. Ed è per questo che la Bce deve intervenire al più presto per correggere gli squilibri dovuti alla politica monetaria.
Se un imprenditore italiano e uno tedesco cercano fondi il primo – quando li trova, ma è sempre più raro – li "paga" al 6-7%, il secondo allo 0,5-1%. Questa differenza, da sola, crea un fossato incolmabile nella competitività. È lo spread dello sconforto. E a sconforto si aggiunge sfiducia se un BTp rende ormai di più del capitale investito nelle imprese (il cui costo supera il rendimento perché il Roe è inferiore al rendimento netto dei bond decennali, come hanno dimostrato i dati R&S diffusi mercoledì). È questo il passo da evitare con ogni mezzo: il lento scivolamento da Paese patria dell'impresa, agente di sviluppo, a Paese della rendita, agente di diseguaglianza.
La recessione non può non avere una scia di fallimenti e anche le banche si attrezzano: le «rettifiche nette su crediti», vale a dire la revisione delle riserve da accantonare in vista di potenziali insolvenze sono salite nel semestre del 23% in UniCredit e e del 37% in Banca Intesa, solo per citare i due principali istituti italiani. Del resto le sofferenze sono aumentate in un anno del 15,8%. I Confidi, chiamati a spezzare gli effetti perversi di questa siccità creditizia, si moltiplicano, ma non possono fare più di tanto.
Fiducia è la password per entrare in un futuro che sia migliore di questo quinquennio (compie 5 anni oggi la più micidiale e multiforme crisi economico-finanziaria del mondo moderno) vissuto con la "scimmia del pessimismo" sulla spalla. Per ritrovarla, la fiducia, occorre anche che ogni italiano, sia esso imprenditore, lavoratore, politico o governante continui a credere nelle forza del Paese.
Va implementata la strategia a due velocità messa in campo finora: la costruzione di un'idea di Europa più forte (dalla road map dell'Unione politica, alla gestione rapida dei fondi anti-spread per gli Stati con nuove operazioni sulla liquidità) e la messa a punto di strumenti di politica economica che si traducano finalmente in politiche industriali.
Il passo avanti sui project bond – diventati legge e finalmente operativi – è un primo segnale di attenzione al mondo dell'impresa. Sarà importante anche dare corso – e in tempi rapidissimi – all'accordo per il pagamento da parte delle amministrazioni pubbliche dei crediti verso i fornitori. Il sistema attende 100 miliardi e questa sarebbe la più decisiva iniezione di liquidità per cambiare segno alla domanda interna. Gli accordi tra Governo banche e imprese ne hanno sbloccati meno della metà; ma ora quel patto deve tradursi in fatto. Aiuterà a ricreare un clima positivo per la ripresa degli investimenti che, tuttavia, non sarà mai ritrovato fino a quando non saranno messe in campo politiche fiscali innovative e comunque premianti, a cominciare dall'abbattimento dell'insostenibile cuneo fiscale.
C'è chi contesta una scarsa propensione delle aziende a investire e a scommettere su di sé. Quando il quadro generale è quello di un mare in tempesta la ritrosia diventa prudenza. Certo non mancano azionisti che hanno usato le aziende per lo più come fornitrici di argent de poche (e anche qualcosa di più) se è vero che è negativo il saldo tra gli apporti di capitale e i dividendi o i rimborsi (-40,8 miliardi secondo il dato Mediobanca sui bilanci di 2.032 società industriali e terziarie). Ma nella stragrande maggioranza dei casi l'imprenditore – quello che ama davvero la sua missione, e sono i più – rischia sul suo business fino alla temerarietà. E scommette sull'Italia, sulle sue straordinarie doti di resistenza ai rovesci internazionali, sulla sua abnegazione, sulla sua capacità di lavoro e di fatica.
Da soli, però, gli imprenditori non possono farcela. La recessione imporrà anche una grande ricomposizione del mosaico produttivo del Paese e chiamerà in causa tutti i soggetti sociali in uno sforzo alto e corale per delineare le nuove direttrici dello sviluppo.
Scommettere sulle start up, magari legate al potenziale della rete, è fondamentale (e il Governo si sta impegnando), ma non si possono abbandonare politiche pubbliche sui settori strategici. Il caso Ilva, ad esempio, è ormai il simbolo di quanto sia ineludibile ripensare in chiave "sostenibile" anche interi settori dell'industria di base o pesante, fatto che, di per sé, farebbe crescere l'intera economia. Ma si tratta di uno sforzo gigantesco che non può non essere supportato anche da fondi europei. All'Italia serve l'Europa e l'Italia serve all'Europa. Ciò che davvero non serve a nessuno è la desertificazione dell'industria.
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