
Nelle considerazioni conclusive della sua "Teoria generale dell'occupazione, dell'interesse e della moneta" (Londra, 1936), Iohn Maynard Keynes scrive che "le idee degli economisti e dei filosofi politici, così quelle giuste come quelle sbagliate, sono più potenti di quanto si ritenga comunemente". Ritiene probabile che le idee che "funzionari di stato e uomini politici e perfino gli agitatori applicano agli avvenimenti" non siano le più recenti; ma, comunque, "presto o tardi sono le idee, non gli interessi costituiti", a modificare la realtà "sia in bene che in male" (1).
Come appassionato lettore e modesto studioso dell'opera di Benedetto Croce, sono totalmente d'accordo: sono le idee, i convincimenti ideali, che animano la Storia ed incessantemente determinano nuova Storia. La condizione necessaria, però, è che queste idee, questi convincimenti ideali, abbiano la forza di conquistare le persone, motivandole ad impegnarsi, ad organizzare lo sforzo comune per il raggiungimento dell'obiettivo voluto, anche a correre dei rischi personali.
Molte parole abitualmente usate nel dibattito politico hanno una pluralità di possibili significati. Ci sono molti modi di intendere il termine "democratico", o il termine "socialista". Il liberalismo non è immune dalla confusione linguistica e, pertanto, anche quanti definiscono sé stessi "liberali" spesso hanno in mente cose profondamente diverse fra loro. Quando persone che dicono di richiamarsi ad una medesima radice ideale vogliono cose troppo diverse, si depotenziano e paralizzano a vicenda. Altro che capacità di conquista...! Per farmi capire, adduco degli esempi concreti, citando quattro persone che scrivono "da liberali", facendo affermazioni che dal mio punto di vista sono sbagliate.
Parto da Carmelo Palma, direttore di "Libertiamo"; Palma si è formato nel Partito Radicale (quello pannelliano) e, pertanto, si riconosce nel trinomio "liberale, liberista, libertario". Ha accompagnato Benedetto Della Vedova, anche lui formatosi nel PR, nel suo itinerario politico; attualmente. Della Vedova è deputato di "Futuro e Libertà". In un articolo pubblicato il 18 maggio 2011, Palma sfotte un poco i moderati, "Moderati di tutta Italia, unitevi", i quali pure dovrebbero essere graditi al cosiddetto "terzo Polo". Si rivolge direttamente ai liberali e fa loro un'esortazione: "disinibitevi". Quello che Palma auspica è appunto un liberalismo "radicale e disinibito"; che dia fiducia "più alla società che allo Stato, più all'individuo che alla comunità, più alla partecipazione civile che all'intermediazione politica" (2). Qui viene fuori l'anima libertaria dei Radicali. Che non intendono l'aggettivo "libertario" come lo potevano intendere Vittorio Alfieri e Piero Gobetti, o come l'intendevano i giovani studenti universitari tedeschi al tempo in cui visse Immanuel Kant, ossia "freisinnig" (persona dal libero sentire). No, per i Radicali pannelliani, libertario significa proprio "anarchico". Quindi, tendenziale sfiducia nei confronti delle Istituzioni rappresentative - il "Palazzo", che tende sempre a fregare i buoni cittadini per fare gli interessi del ceto politico e burocratico - ed esaltazione della democrazia diretta, con il suo principale strumento di espressione: il Referendum popolare.
La seconda citazione è di Angelo Panebianco, intelligente commentatore dei fatti politici. Con il quale mi è capitato frequentemente di essere d'accordo; tranne per un'impostazione generale che, dal mio punto di vista, attribuisce troppi meriti e troppe virtù salvifiche al bipolarismo, che Panebianco vorrebbe consolidare con tecniche di ingegneria istituzionale ed elettorale, quale elemento portante del sistema politico. Aggiungo che non condivido neppure l'esaltazione della legge elettorale maggioritaria basata su collegi uninominali, a turno unico, come nel modello inglese. Nell'editoriale titolato "Distanti e divisi, i nodi del centrodestra", pubblicato nel Corriere della Sera, Panebianco così consiglia il Presidente del Consiglio: [Berlusconi] "deve, in accordo con Tremonti, fare ciò che è lecito aspettarsi da un governo di centrodestra: dare una vera sferzata pro-crescita all'economia, liberare gli ingessati "spiriti animali" del capitalismo italiano" (3). A me sembra che, negli ultimi decenni gli “spiriti animali” siano stati fin troppo liberi, e che questo abbia portato ad una devastazione senza precedenti del patrimonio naturale ed ambientale, e ad offese imperdonabili alle bellezze del paesaggio. Vorrei che le istituzioni pubbliche a tutti i livelli, a partire dal Governo nazionale, operassero per salvaguardare e realizzare il bene comune. Il che non significa soltanto impedire la cementificazione di ciò che resta del territorio; ma richiede, ad esempio, che le opere pubbliche siano realizzate a regola d'arte, con tutte le garanzie dal punto di vista delle tecniche costruttive, in modo da non richiedere interventi di manutenzione straordinaria già pochi giorni dopo l'inaugurazione. Vorrei anche che chi costruisce male, appropriandosi del denaro pubblico e mettendo in pericolo l'incolumità dei cittadini, riceva punizioni severe e, comunque, tali da funzionare come reale deterrente nei confronti di quanti in futuro intendessero percorrere la medesima strada.
La terza citazione è di Antonio Martino; il cui cognome richiama le origini familiari messinesi e si associa subito suo padre, Gaetano, che fu docente universitario, autorevole politico e ministro espresso dal Partito liberale (PLI). Invece, Antonio Martino è un economista della scuola statunitense di Milton Friedman ed è noto per essere stato tra i fondatori del partito "Forza Italia". In questo caso la citazione è meno recente; ma è particolarmente significativa: "La lezione è semplice: se lo Stato non ci mette lo zampino l'economia è perfettamente in grado di risolvere i suoi problemi. Come diceva Reagan, lo Stato è il problema non la soluzione". Concezione così ribadita: "nella maggior parte dei casi lo Stato è il problema - l'intervento dello Stato crea problemi, anziché risolverli". Qui Reagan è citato come massima fonte liberale. Fra i liberisti italiani dei nostri giorni si dà per scontato il carattere liberale della politica economica condotta dai governi di Margaret Thatcher e di Ronald Reagan. Ricordo, invece, la freddezza di Giovanni Malagodi nei loro confronti, soprattutto nei confronti della signora Thatcher. La quale, non a caso, guidava il Partito conservatore del Regno Unito, fortemente criticato dal Liberal Party. Il giudizio di Malagodi deve pur significare qualcosa, considerato che egli era Presidente dell'Internazionale liberale.
Antonio Martino suole ripetere che le controversie fra gli economisti si risolvono nella differenza fra quelli che conoscono l'Economia e quelli che non la conoscono. Dando, ovviamente, per scontato che lui è fra coloro che sanno. Penso che le cose siano molto più complesse. La scienza economica era ed è tuttora campo di non risolte controversie. Voglio ricordare il palermitano Francesco Ferrara (1810-1900). Ferrara, uno fra i protagonisti del Risorgimento siciliano nel 1848, l'anno seguente si rifugiò nel Regno di Sardegna, per sottrarsi alla reazione borbonica. Ancora oggi è ricordato come uno fra i più brillanti e dotti economisti italiani d'indirizzo liberista. Nell'estate del 1874 Ferrara fondò la "Società Adamo Smith", che ebbe qualificate adesioni soprattutto in Toscana ed in Sicilia. Tra i fondatori figurano Gino Capponi, Ubaldino Peruzzi, Bettino Ricasoli; e, tra i soci ordinari, Sidney Sonnino e Vilfredo Pareto. Alla Società creata dal Ferrara si contrappose però l'Associazione per il progresso degli studi economici, di cui fu magna pars Luigi Luzzatti, il quale, si badi bene, non era un socialista, ma un deputato della Destra Storica. Tra gli economisti non c'è mai stato accordo. Questa è la verità.
L'evocazione della Destra storica, cioè del gruppo politico che direttamente si richiamava a Cavour, introduce la quarta citazione. Si tratta dello storico Giovanni Belardelli, autore di una recente biografia di Mazzini, inserita nella collana "L'identità italiana" de Il Mulino. Ho letto il libro perché m'interessa Giuseppe Mazzini (non chi ne scrive), ma, per i miei gusti, in questo caso il biografo si è caratterizzato per un voluto distacco critico ed una evidente assenza di simpatia per il personaggio di cui delineava il profilo. Mazzini, per fortuna, ha avuto altri studiosi. Belardelli ha recensito nel Corriere della Sera un libro antologico su Marco Minghetti, curato da Raffaella Gherardi ("Il cittadino e lo Stato", Morcelliana, 2011). Nell'occasione, Belardelli ha lamentato la relativa sfortuna delle idee di Minghetti nella cultura politica italiana, "propensa ad apprezzare assai di più un liberalismo come quello degli hegeliani di Napoli, i quali ponevano al centro lo Stato che - come scriveva Silvio Spaventa 'ci comanda, ci obbliga e ci sforza al bene comune". Qui Belardelli ripropone una vecchia polemica contro gli "hegeliani di Napoli", polemica che, come modesto studioso di Benedetto Croce, non so più quante volte ho incontrato. Con questa chiave interpretativa, il lettore dovrebbe essere indotto a pensare che sia colpa degli hegeliani napoletani e massimamente di Silvio Spaventa se Minghetti non sia stato apprezzato come avrebbe meritato. Mi limito a ricordare che quando il 18 marzo del 1876 ci fu la cosiddetta "rivoluzione parlamentare", che determinò la caduta del governo presieduto da Marco Minghetti e la conseguente emarginazione della Destra storica, Spaventa era autorevole ministro di quell'Esecutivo. Minghetti e Spaventa furono messi in minoranza perché il loro governo voleva che il sistema ferroviario nazionale fosse di proprietà e sotto l'esercizio dello Stato; Francesco Ferrara e i suoi amici deputati liberisti toscani unirono i loro voti a quelli della Sinistra per mettere in minoranza la Destra storica.
Traggo le conclusioni da quanto finora ho argomentato. Molti "liberali" odierni sono convinti che la teoria liberale sia nata con Friedrich A. Hayek e trovano inconcepibile la distinzione crociana tra liberalismo e liberismo economico. Hayek aveva una sua rispettabilità come pensatore; anche se acquistò notorietà internazionale soprattutto come critico della teoria economica di John M. Keynes. Questo semplice fatto dovrebbe già mettere in guardia. La teoria economica classica si dimostrò impotente a fronteggiare la grande crisi economica del 1929 e Keynes tentò altre soluzioni proprio perché toccava con mano che con le ricette tradizionali non si andava da nessuna parte. Il Presidente degli Stati Uniti Franklin Delano Roosevelt non fu un socialista (come sbrigativamente sostengono tutti coloro che chiamano "socialismo" qualunque forma di intervento pubblico nell'economia), ma un campione delle democrazie liberali e dell'Occidente. Nel suo celebre discorso del 1941 sulle "quattro libertà" essenziali, ripropose due libertà tradizionalmente proprie della teoria liberale, la libertà di manifestazione del pensiero e la libertà di religione (freedom of speech e freedom of religion). Ad esse affiancò la libertà dalla paura (freedom from fear) e, soprattutto, la libertà dal bisogno (freedom from want). La libertà dal bisogno non è una diavoleria socialista, ma è il naturale svolgimento di un liberalismo preso sul serio. Se la libertà è un principio fondamentale, essenziale per la dignità di tutti gli esseri umani, occorre impegnarsi per la liberazione dalla povertà, perché non è libera un'esistenza ridotta a lotta quotidiana per il soddisfacimento dei bisogni materiali più elementari. Così come occorre impegnarsi per la liberazione dall'ignoranza. Infatti, non c'è libertà quando venga negata la possibilità di accedere progressivamente a sempre più raffinate forme di sapere e di conoscenza, speculativa e tecnica, da usare per la costruzione di un proprio autonomo progetto di esistenza. Adolfo Omodeo definiva tutto questo "libertà liberatrice", con una formula già usata dal Mazzini.
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