
Martedì scorso si è svolto a Washington il summit Usa-Ue: nessuno se ne è accorto, o quasi. Mentre tutti si accorgono, in anticipo, che fra pochi giorni Barack Obama andrà in visita in Cina. C’è qui, in questo scarto fra disattenzione e attenzione, la vicenda internazionale degli ultimi anni: lo spostamento degli equilibri globali verso l’asse transpacifico a spese di quello transatlantico. Il G2, insomma. Ma è proprio così? La nostra tesi è che non sia esattamente così. O meglio, che gli europei abbiano ancora delle carte da giocare per restare nel gioco — se solo volessero. Se solo volessero, insomma, guardare a un G3. Prendiamo i numeri. L’area economica transatlantica resta, per ora, l’area più vasta, più ricca e più integrata del mondo. Se guardiamo agli investimenti esteri diretti, il rapporto fra Stati Uniti ed Europa è ancora molto più importante, per entrambi, della relazione con la Cina. E al di là di tutti i discorsi sull’ascesa della potenza cinese, il peso europeo nel commercio globale ha continuato a crescere, nell’ultimo decennio. L’Ue è la principale potenza commerciale del mondo, anche se— per ragioni abbastanza misteriose— facciamo finta di non accorgercene. Apparentemente, la discussione sugli equilibri monetari globali sembra dipendere in modo esclusivo dalla relazione fra la Cina e gli Stati Uniti, fra il grande creditore asiatico e il grande debitore occidentale. Nei fatti, l’euro ha una sua voce da esercitare, ammesso che la politica monetaria europea venga finalmente vista non solo come politica «interna» all’Ue ma come parte di una strategia globale. Il che ci permetterebbe di reggere alle pressioni congiunte che oggi si scaricano sull’euro. Un G3 monetario sarebbe insomma un progresso, per l’economia europea e per la riforma della governance internazionale. Dopo tutto, il G2 lo abbiamo già sperimentato nei fatti: difficile chiamare in modo diverso quella «relazione pericolosa» fra la propensione alla spesa degli Stati Uniti e la tendenza al risparmio della Cina che è stata fra le cause, fra le cause certe, della crisi finanziaria. Se un G3 economico non è impossibile da immaginare — perché lo dicono i dati sulla rilevanza dell’euro-zona e perché l’Ue ha in teoria strumenti comuni, monetari e commerciali, da esercitare— è più difficile capire se l’alleanza politica fra l’Europa e gli Stati Uniti faccia parte del passato o abbia anche un futuro. Perché, se così non fosse, se cioè non reggesse il lato atlantico, l’Europa resterebbe una potenza regionale, magari con un rapporto preferenziale con Mosca (l’Eu-Russia); ma non diventerebbe un attore del nuovo assetto globale. Secondo un rapporto appena pubblicato dallo European Council on Foreign Relations, esiste in proposito un rischio specifico: il rischio che gli europei continuino a raccontarsi, sui rapporti con Washington, una serie di comode «balle». La realtà è che Barack Obama è il primo presidente postatlantico da mezzo secolo a questa parte; la realtà è che dell’Europa in ordine sparso non gli importa granché; e la realtà, infine, è che l’America è sufficientemente pragmatica da giudicare l’Europa non su basi nostalgiche (il legame indispensabile degli anni della Guerra fredda) ma sulla base del contributo concreto che gli europei sono in grado di offrire nella gestione delle crisi internazionali (Afghanistan, Medio Oriente, etc). Per cui, se l’Europa intende preservare il legame con gli Stati Uniti, non può limitarsi a coltivare i riti atlantici del passato; deve anzi liberarsene. Solo un’Europa «post-americana», questa la tesi di fondo, sarà interessante anche per Washington. Paradossalmente, infatti, l’Europa riuscirà a maturare, come attore internazionale, solo emancipandosi da un rapporto ancora troppo subalterno con l’altra sponda dell’Atlantico (quanto a scelte strategiche, definizione dei propri interessi, strumenti comuni di politica estera e di difesa). L’autonomia come condizione per la rilevanza. E la rilevanza come condizione per salvare un’alleanza occidentale che dovrà essere meno squilibrata — e quindi più utile agli Stati Uniti— o non sarà più. D’accordo. D’accordo a grandi linee e d’accordo in parte. Perché alcuni degli assunti del Rapporto sono discutibili (in che senso viviamo in un mondo «postamericano»?) o non vengono dimostrati. Si può per esempio dare per scontato che l’Europa non abbia più bisogno, in termini di sicurezza, della protezione americana? A giudicare dal livello delle spese militari europee, e soprattutto dalla loro qualità, risponderemmo di no. E quali sono gli interessi divergenti fra Stati Uniti ed Europa, spesso evocati nel Rapporto del Council ma mai definiti? La vera frattura geopolitica che potrebbe verificarsi— quella fra «Eu-Russia» e «China-America» — non viene presa in considerazione. Ma come invito a pensare senza troppi tabù, il punto di partenza che ci viene sottoposto è utile: nella relazione con gli Stati Uniti, gli europei continuano a soffrire di un insopportabile infantilismo. Chiedono protezione, sono abituati a delegare, muoiono dalla voglia di preservare rapporti bilaterali sempre definiti «speciali». Tutte cose che, messe insieme, impediscono all’Europa di assumersi le proprie responsabilità. E di combinare, al proprio peso economico, quel peso politico potenziale che— solo — potrebbe evitare un G2.
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