
L'euro non ha mai avuto molti amici oltre Manica, di più ma non moltissimi oltre Atlantico. Le cause della scarsa simpatia britannica sono plurisecolari. Quelle della perplessità americana vanno oltre i timori di una rivalità con il dollaro, e sono radicate nella stessa esperienza nazionale, che ha visto nascere prima l'unità politica e budgetaria e dopo quella monetaria. Non hanno tutti i torti.
Ma la benvenuta sollecitudine del presidente Obama per i destini dell'euro, e il suo pressing sulla Germania di Angela Merkel, non possono far dimenticare che la questione Europa è entrata ormai nel tritacarne elettorale. Come alibi dell'accusa, per lo sfidante Mitt Romney a cui avviso Obama vuole rendere l'America più simile a un'Europa che non funziona, tantomeno nella moneta. E come alibi per la difesa per un presidente che attribuisce esagerando all'Europa un rallentamento economico americano che cade per le sue prospettive di rielezione nel momento peggiore.
L'impotenza europea, per quanto preoccupante anche alla Casa Bianca, aiuta al momento ad occultare i problemi americani. E a mettere in secondo piano la paralisi di Washington a fronte dei propri conti pubblici in caduta libera. Si tratta infatti di un duplice alibi, e la stessa Europa che frena la crescita Usa fa anche dei titoli del Tesoro americano un bene rifugio, apprezzabile visto il volume del debito.
Insomma, il decesso del paziente terrorizza, ma la sua guarigione rapida - se fosse possibile - sarebbe un serio problema.
Appena votato, a novembre, esploderà in tutta la sua virulenza negli Stati Uniti una situazione contabile di difficile soluzione, per ora d'intesa accantonata. Washington sta accumulando debito a velocità mai vista, molto più che negli anni irresponsabili di Bush figlio, e spendendo un terzo in più di quanto raccoglie, giorno dopo giorno. Solo la crisi europea sta garantendo a Washington la possibilità preziosa di finanziarsi sui mercati a costi bassissimi, perché il mercato globale non può permettersi due crisi nelle monete leader in contemporanea, e nel dollaro deve avere fiducia. Sempre tuttavia a più di 1,20 dollari per euro, finora.
Se si vuole una sintesi di quello che politici e commentatori, economisti e giornalisti americani dicono e scrivono ormai ogni giorno in questo 2012 la si può trovare in una recentissima analisi cofirmata da Simon Johnson, l'anglo-americano ex capo economista del Fondo, docente al Mit, solista del Peterson Institute, attivissimo commentatore e autore di molte buone analisi sulla crisi finanziaria. Sull'euro, è una seduta da sedia elettrica. Johnson incomincia dicendo che il caos economico aspetta l'Europa. Prosegue dicendo che nulla può fermarlo. E conclude affermando che il compito di coordinare questi 17 paesi è fuori portata umana e che occorre «districarsi da questo colossale errore della moneta unica».
Martin Wolf, il commentatore di punta del Financial Times e firma ampiamente pronta e da tempo alle esequie dell'euro, osservava recentemente che tutti gli interlocutori americani credono ormai alla disfatta della moneta unica. E aggiungeva però, lui stesso turbato da tanta perentorietà, che forse veniva sottovalutata la posta in gioco - la fine dell'Europa non solo di Maastricht, ma di Bruxelles - e l'istinto di sopravvivenza politica degli europei, all'ultimo passo prima del plotone d'esecuzione.
Barack Obama spinge gli europei a fare di più ma anche usa la crisi dell'euro come alibi quando dice, come ha fatto venerdì a Chicago e in Minnesota poco dopo i pesanti dati americani sull'occupazione di maggio, che «nere nuvole» stanno attraversando l'Atlantico. Certo, dopo averlo attraversato in senso inverso, verso est, nel 2008, e senza che da allora l'amministrazione Obama facesse molto per ridare all'America la credibilità perduta di leadership globale finanziaria.
Anche negli Stati Uniti si riaffaccia lo spettro della recessione e la causa, è facile dirlo, sarebbe in primis l'Europa. Ma ripresine analoghe a quella del novembre-marzo scorsi c'erano già state nel 2010 e 2011 per sfiorire poi a inizio estate, per cause tutte interne di eccesso di debito privato e pubblico, di stagnazione dei redditi reali, di crisi immobiliare inarrestabile. E c'era chi negli Stati Uniti, basti citare l'Economic Cycle Research Institute di New York che finora in 20 anni non ha mai sbagliato, spiegava sei mesi fa come anche l'ultima ripresina sarebbe finita in recessione. Non è stata quindi, quella della disoccupazione a maggio, una doccia gelata a sorpresa.
L'Europa dell'euro ha tante colpe, e continua ad averle, verso se stessa soprattutto. Ma non è la causa dei guai americani. Così come il debito greco, quello italiano, le fragili banche e gli eccessi edilizi spagnoli non sono discendenza diretta dei subprime e della finanza innovativa di Wall Street. A ciascuno il suo, e senza alibi.
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