
19/10/09
La stampa
L’attentato contro i Guardiani della Rivoluzione nella capitale del Beluchistan ha fatto quarantanove morti. I pasdaran, una sorta di duplicato dell’esercito regolare, perdono uomini d’alto rango militare, perdono la presunzione dell’incolumità ritualmente esaltata dalla stampa di regime.
I pasdaran (trecentomila uomini, unità antisommossa, navi ed aerei) furono legalizzati da Khomeini. Negli anni sono diventati i moschettieri, prima di Khomeini e dopo dell’ayatollah Khamenei, il successore dell’imam.
Torna qui facile rifarsi all’Italia di Mussolini che, per mettere la mordacchia ai dissidenti, creò la Milizia volontaria della sicurezza nazionale: il 25 di luglio si dissolse spontaneamente. Va detto che la notizia dell’attentato ha turbato la gente, da qui le dichiarazioni bombastiche dei gerarchi col turbante: Ali Larijani, presidente del Parlamento, ha accusato gli Stati Uniti, immediatamente: «Gli ultimi attentati vengono da Washington. Il presidente Barack Obama aveva detto di tendere la mano all’Iran, ma con questa strage la sua mano l’ha bruciata».
E ancora: «L’arroganza globale ha sollecitato i mercenari che hanno compiuto l’attacco», dice una successiva «nota». Nel linguaggio cifrato dei gerarchi iraniani «arroganza globale» indica gli Stati Uniti e in genere le potenze occidentali. Esperti del complicatissimo Iran sottolineano un intrigante accadimento: oggi a Vienna si incontrano (tranne disdetta dell’ultima ora) delegati occidentali e iraniani per affrontare il dossier atomica. Questo per dare un segnale di buona volontà nell’imminenza di un inverno precoce che, si teme, possa essere la prova generale di una dura lezione di Israele a «obiettivi militari» dell’Iran.
Dopo le accuse con relative smentite, e cioè che dietro il disastroso attentato nel Beluchistan ci siano Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna e il confinante Pakistan, crescono le scommesse, a Vienna, dove oggi si incontrano al «5+1» Usa, Russia, Cina, Regno Unito, Francia più la Germania. Assai diffuso è il timore che «si tagli acqua», che tutto finisca nel paniere della formalità, nel torrente della rissa diplomatica. Non per esser sospettosi, ma intriga la coincidenza attentato-conferenza. (Incrociamo le dita).
Lascia perplessi quello che chiameremo il «caso Khamenei». E’ sparito da oltre una settimana, le sue foto sembrano truccate. Teheran gronda sospetto e formula minacce: «vendetta», dice il premier alla tv dove ricorda le «asperità colonialiste» che il «generoso popolo» ha affrontato e superato nel corso della sua Storia.
Una Storia invero granguignolesca, zuppa di speranze e di sangue, ma anche zuccherata dai settimanali in rotocalco.
Chi scrive ricorda l’avventurosa vicenda di Reza Khan che volle farsi chiamare Imperatore e dopo la guerra barattò il suo petrolio con il riconoscimento nel Gotha dei «Paesi ricchi», a dispetto d’un lumpenproletariat che muore di fame. Letteralmente. Opportunista nel senso totale della parola, il rozzo ma dinamico Reza padre finita la Grande Guerra manda a casa inglesi e americani: «Noi siamo una libera nazione, non un palliativo», mandò a dire ai suoi «alleati-amici-dispotici». Ma la sua pietra del destino è il Nazionalismo, cioè il petrolio. Le grandi holding lo costringono a infuocare la partita, ma invano. E’ costretto all’esilio - e non è da credere che non ci scappasse periodicamente il morto, guarda caso un personaggio del suo regno. Lo segue il figlio.
Ha perso la partita ma con l’interessato aiuto degli Stati Uniti riesce (un capolavoro diplomatico) a riavere il trono, quel Trono del Pavone ch’era un mix di regalità da filodrammatici e di grasso business.
«Lo ha perduto il successo», mi disse la sua malinconica ex moglie, l’amatissima Soraya, incontrata a Roma, nella casa sul Gianicolo di Antonella di Bugnano. Certamente lo Scià si illuse di guadagnarsi il consenso dei giovani che preferirono la fame agli stipendi d’oro che l’Imperatore gli offriva «per fare dell’Iran un pilastro di benessere». Ma i giovani iraniani erano già ammaliati dai «video» che il vecchio Khomeini con velocità invero giovanile diffondeva dall’esilio in Iraq e poi dalla «fatale Parigi» da dove spiccò il volo della vittoria per sbarcare a Teheran come un santone. Ma colui che doveva diventare la Guida d’un Paese bello e potenzialmente straricco, da santone divenne spietato regista d’una saga senza misericordia. Fu crudele, specie con coloro che lo servirono gratis et amore dei. Fucilò innocenti giusto «per dare l’esempio»; se potesse, camminerebbe su chilometri di scheletri che furono uomini, sovente a lui devoti.
Il ferreo imam tuttavia conobbe l’amarezza della sconfitta. Se la (vergognosa) presa degli ostaggi americani scalfì il suo essere personaggio-sapiente, la Guida giustappunto, la pretesa di fare di cinquanta milioni di brava gente intelligente e dedicata al lavoro un esercito felice e docile, fu il cappio ideologico che strangolò il religioso e l’ignorante, un po’ tutti i persiani.
Un giorno i morti verranno finalmente contati e una volta ancora scopriremo che la violenza è come l’acido muriatico: brucia ma non uccide, sfigura.
Arrogante e pio. Testardo e vendicativo. Sanguinario. Profeta di sciagura. Privo di humour. Spietato. Ascetico. Affamato di potere. Un po’ rozzo, un po’ genio. L’uomo che ha cambiato la Storia. Ecco qualcuna delle definizioni dedicate a Khomeini. Lo hanno anche definito un fanatico, ma mi sembra più propria la definizione di Popper: «Khomeini fu un essenzialista», un uomo cioè convinto di essere sempre nel giusto.
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