
22/03/11
Il manifesto
C'è un'occasione che rischiamo di perdere. Il 6 aprile di due anni fa il terremoto distruggeva L'Aquila e il suo tessuto sociale ed economico. Una tragedia che mise a nudo gli effetti di sessant'anni di regressione della democrazia e dello Stato di diritto in Italia. Furono, infatti, il dissesto idrogeologico, la mancata prevenzione, l'edilizia fuori norma, l'elusione di controlli e procedure a trasformare la manifestazione ostile della natura in una catastrofe. Allo stesso modo, la gestione emergenziale successiva al sisma, in stile Protezione civile Spa, rese evidente quanto quel modello prefigurasse un'ulteriore involuzione in senso illiberale della nostra forma di Stato. I primi a capirlo furono proprio gli aquilani, la cui capacità di organizzarsi e di proporre ci apparvero un primo segnale di quella rivolta nonviolenta, legalitaria, democratica, indispensabile per liberarci da un regime partitocratico che usurpa le istituzioni e occupa i territori. Proprio per questo, a luglio tenemmo il comitato nazionale dei Radicali all'Aquila nel tendone dell'assemblea cittadina. Tre settimane dopo il Pd si mosse "alla radicale": portò i suoi parlamentari in pullman nel capoluogo abruzzese. Bersani dichiarò: «Da domani ogni parlamentare venuto qui sentirà l'impegno per l'Aquila come un compito personale. Cercheremo di metterci al servizio, a partire dalla legge di iniziativa popolare per la quale raccoglieremo le firme in tutta Italia». Una proposta di legge elaborata dalla stessa assemblea cittadina e che, al pari del testo depositato dai parlamentari radicali (prima firma Elisabetta Zamparutti), affronta il passaggio dai commissariamenti ad un governo ordinario e democratico della ricostruzione.
La raccolta firme è iniziata lo scorso 20 novembre e non è ultimata; servono 50mila sottoscrizioni, ma per riportare L'Aquila al centro dell'agenda politica servirebbe una mobilitazione straordinaria, raccogliendo in tutta Italia centinaia di migliaia di firme come se fosse un referendum. Perché di un referendum civile si deve trattare: per chiedere al Paese se vogliamo lasciare sola L'Aquila, accettandone la cancellazione storica, culturale, sociale ed economica, oppure se vogliamo farne il fronte iniziale di una più vasta campagna per la messa in sicurezza del territorio dai prevedibilissimi danni da dissesto idrogeologico. Con risorse esclusivamente militanti, abbiamo aperto in varie città le nostre "sedi", i tradizionali banchetti per le firme. E ci siamo scontrati di nuovo con l'antidemocrazia italiana. Visto che lo Stato non garantisce un vero servizio pubblico di autentica delle sottoscrizioni, l'unica possibilità sono i partiti che dispongono di migliaia di eletti negli enti locali. Purtroppo abbiamo trovato - a parte alcune lodevoli eccezioni - disinteresse se non esplicito rifiuto, anche da chi si era pubblicamente speso. E raccoglieva milioni di firme su altro. Nel frattempo, in quello che doveva essere il più grande cantiere d'Europa i lavori sono fermi, le procedure incerte. Di fronte alla paralisi il sindaco Cialente si è dimesso. Un modo per recuperare il tempo perduto però esiste ancora: in questi giorni tutti i partiti raccolgono le firme per le amministrative. Basterebbe aggiungere i moduli della legge di iniziativa popolare e in pochi giorni L'Aquila tornerebbe al centro della politica nazionale. Anche senza le passerelle del presidente del Consiglio.
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