
Quello di Giorgio Napolitano è un bilancio lucido, senza finzioni. E dunque anche amaro. Il presidente della Repubblica consegna alle alte cariche dello Stato un'Italia che si è salvata dal peggio grazie al governo dei tecnici guidato da Mario Monti e al senso di responsabilità dei tre partiti che lo hanno appoggiato; e che avrà un percorso obbligato anche dopo il voto di febbraio, perché i suoi impegni sono in larga parte concordati con l'Unione Europea. Ma la fragilità di una politica che non è riuscita a riformarsi in questi tredici mesi, né a cambiare una legge elettorale ritenuta a parole indigesta, pesa in maniera preoccupante anche sul futuro.
È un cruccio che il capo dello Stato non nasconde né vela. Lo offre all'analisi dei suoi interlocutori politici e istituzionali come materia di riflessione e di esplicito rammarico. Quando dice che sta per essere archiviata un'altra «legislatura perduta», non fotografa soltanto ma denuncia la realtà. E avverte «tutti» che dovranno guardarla in faccia nei prossimi mesi: per quanto gli compete, il Quirinale lo farà fino al termine del settennato. Significa che ci saranno elezioni anticipate, ma non dimissioni anticipate del presidente della Repubblica. È l'ufficializzazione di una novità: lo strappo del Pdl contro Monti e la crisi implicano che toccherà a Napolitano conferire l'incarico per il nuovo governo.
L'ultimo atto del settennato sarà dunque quello di «leggere» il responso degli elettori, e prefigurare gli equilibri della Terza Repubblica. Dal modo in cui il capo dello Stato ha parlato ieri, i margini per una confusione su alleanze e candidature, oggi vistosa in modo sconcertante, si ridurranno di molto. Per Napolitano, le urne restituiranno forza e voce alla politica. L'ipotesi di riproporre un governo dei tecnici, seppure sotto altre vesti, sembra esclusa preventivamente. L'incapacità o la non volontà di riformare il sistema elettorale rischia di ricreare maggioranze che avranno difficoltà a governare; eppure, non potranno che essere i voti raccolti la base per decidere chi guiderà l'Italia.
Napolitano assicura di non avere nessuna preoccupazione per il risultato delle urne: chiunque vinca, spiega all'Europa e alla comunità internazionale, le coordinate non cambieranno. Ma si coglie una punta di apprensione per le possibili dinamiche della campagna elettorale. Un sistema impermeabile a qualunque novità potrebbe rovinare i risultati raggiunti quasi per forza di inerzia, guidato da un istinto demagogico più forte del senso di responsabilità; e sgualcire l'immagine di stabilità e continuità istituzionale ricostruita faticosamente in questi mesi. Più che un processo alle intenzioni, somiglia a un preallarme. Le parole d'ordine di alcuni partiti non sono incoraggianti.
Ma soprattutto, non tranquillizza lo sfondo nel quale si inseriscono. Il richiamo a non nascondere all'opinione pubblica i contorni e le dimensioni della crisi, a non regalare promesse e sogni irrealizzabili, è il lascito doveroso di un capo dello Stato consapevole delle debolezze del sistema e dei rischi di ulteriore delegittimazione. Con un velo di delusione, ma anche con garbata durezza, Napolitano evoca l'insufficienza di un'offerta politica tuttora indeterminata: sospesa fra vecchi schieramenti e movimenti allo stato embrionale, chiamati a rispondere a un elettorato divenuto più esigente e diffidente. E a ragione.
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