
La società civile si sta decomponendo, nel momento in cui tutti parlano in suo nome. Non esiste documento politico o sociale che non faccia riferimento in termini enfatici alla società civile. C’è la rincorsa - urlata - a presentarsi come i veri rappresentanti della società civile. L’indicatore principale è l’antagonismo: contro il sistema partitico, contro la casta dei politici, sino a coinvolgere confusamente l’intero apparato istituzionale e naturalmente la politica sin qui praticata dal governo Monti. Chi fa la faccia più ringhiosa e le spara più grosse è convinto di essere ascoltato. Chi si attiene ad un discorso sobrio e razionale rischia di essere sbeffeggiato. Sarà questa la vittoria della «società civile»?
La società civile più che l’interlocutrice, l’interfaccia o il deposito dei valori e delle risorse attivabili per la politica, è considerata e invocata sempre di più come la sua antagonista. O è così soltanto nell’immaginario di chi l’ha sempre sulla bocca? Per non fare confusione, è bene chiarire che non stiamo parlando della società in generale in tutta la sua complessa articolazione, o di quella «società civile» che si sta esprimendo sotto i nostri occhi in questi giorni negli eventi luttuosi legati al terremoto: coinvolgimento, partecipazione, solidarismo, dedizione insieme alle istituzioni. In questi momenti è percepibile quel potenziale di «coesione sociale» (termine che è diventata una formula istituzionale) che dovrebbe essere il segnale del rapporto ottimale tra società civile e sistema politico. Ma non può sfuggire il fatto che proprio in queste circostanze alcune forze politiche, convinte di rappresentare in esclusiva la «società civile», hanno contestato la celebrazione del 2 giugno. Ma c’è il sospetto che dietro agli argomenti avanzati si celino altre intenzioni.
Facciamo un passo indietro tornando alla fase culminante e poi rovinosamente precipitata del berlusconismo. Quella è stata la stagione alta dei movimenti della «società civile» di cui retrospettivamente oggi si colgono i limiti. Dalla famosa e ormai dimenticata manifestazione al Circo Massimo (con Veltroni, se ben ricordo) sino alle altre successive manifestazioni di profilo «civile» più specifico, non si trattava semplicemente di un collettore dell’antiberlusconismo, come si disse. Il berlusconismo intendeva essere una rivoluzione del costume e un modo diverso di concepire la società e la politica, una virtuale mutazione democratica - come ci insegnavano anche seriosi intellettuali che ora si defilano. Contro questa mutazione era inevitabile che si mobilitasse un movimento che si identificava come «società civile», prima ancora che come parte politica. Ma questo era un errore, perché anche quella che credeva nel berlusconismo era «società civile».
Discorso diverso meriterebbe l’ultimo grande movimento, quello delle donne «Se non ora, quando?» la cui successiva dispersione e mancanza di incidenza politica è (stata) una dura lezione molto istruttiva. Se c’era un movimento che poteva avanzare più degli altri il diritto di esprimere valori di «civiltà sociale» trasversali e alternativi all’anima profonda del berlusconismo, era quello delle donne. Proprio per questo è stata clamorosa la sua incapacità di fecondare una nuova politica, una volta che il Cavaliere se n’è andato.
Nel frattempo la «società civile», dispersa e depressa, assiste passiva e apparentemente disarmata all’irruzione sulla scena di chi la solletica in continuazione. Il termine «scena» qui non è un modo di dire. La tanto deprecata «democrazia mediatica» dell’età berlusconiana ha raggiunto paradossalmente la sua maturità. Non c’è più l’intrattenimento politico al servizio di un protagonista principale e della sua corte. Ma il sistema mediatico in tutte le sue forme è il luogo privilegiato della comunicazione politica di massa. La «società civile» è diventata la società degli spettatori o dei fruitori di Internet. Vi si possono vedere tutti: da Mario Monti (più o meno a suo agio) in una Piazza mediatica alle nuove facce - da Beppe Grillo a Roberto Saviano.
In questo contesto è evidente l’ansia con cui si cerca di anticipare - tramite continui monitoraggi demoscopici - l’ipotetico futuro comportamento elettorale. Se da un lato è la conferma che l’appuntamento elettorale rimane in definitiva per tutti l’unico criterio di giudizio della politica, dall’altro è impressionante la dispersione delle forze politiche che parteciperanno alla competizione elettorale - a parte l’immobile montagna delle dichiarazioni di astensione. Al momento è impossibile prevedere quanto significativa sarà la tenuta del Pd, quanto pesante sarà il tasso di dissolvimento del Pdl, e quindi quale sarà l’assestamento delle altre forze che sono già in campo. Ma l’incognita maggiore sarà il presumibile avanzamento del Movimento Cinque Stelle, tanto sicuro di sé quanto portatore di una strategia politica complessiva ancora troppo confusa (a prescindere dalla punizione esemplare della casta). L’idea che la formula vincente possa essere proprio la combinazione tra voglia di punire e confusione strategica fa rabbrividire. Una cosa è certa: con il passare del tempo e il prevedibile peggioramento della crisi economica, pur di strappare consenso, si farà sempre più forte il radicalismo verbale con proposte dettate dall’emotività anziché da argomentazioni ragionate - compresa l’uscita dall’euro e dall’Ue. L’ultima «pazza idea» di Berlusconi di una zecca italiana dell’euro, anche se subito ritirata, è un segnale da prendere sul serio.
Abbiamo disperatamente bisogno di una forza politica che tenga i nervi a posto, agisca in modo razionale e trasparente e abbia la capacità di convincere la società («civile» è pleonastico) a darle credito.
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