
Al netto dell'enfasi, quasi inevitabile in certi momenti, in Europa è stata accolta con evidente soddisfazione la conferma di Obama alla Casa Bianca. In Italia in modo particolare. Non è in questo caso il solito affrettarsi in soccorso al vincitore, come diceva Ennio Flaiano. È che Obama sembra fatto per piacere alle opinioni pubbliche europee non meno che a una buona porzione di "establishment".
Al contrario, il repubblicano Romney, con quel suo modo un po' sprezzante, con quelle battute contro lo "statalismo" italiano e spagnolo, ha sempre goduto di magri consensi al di qua dell'Atlantico e soprattutto, salvo eccezioni, in riva al Tevere.
In realtà la questione è molto più complessa. La seconda opportunità di Obama si presenta come un sentiero assai accidentato, considerando la voragine del deficit e l'abisso del debito in cui annaspano gli Stati Uniti, come i mercati hanno subito segnalato. Ma anche per questo l'Italia istituzionale ha motivo di sentirsi vicina al presidente confermato. America ed Europa, nella visione obamiana e anche nella nostra, stanno in piedi insieme o insieme cadono. Non è esattamente una «partnership» come quella del passato, fra un'America orgogliosa superpotenza e un'Europa riemersa dal disastro della guerra, ma è pur sempre una scommessa sulla stabilità dell'area euro-atlantica. Nonché sulla solidità della moneta unica.
In altri termini, il presidente democratico continua a essere un prezioso alleato degli europei, in particolare di quei paesi, tra cui l'Italia, che hanno bisogno di tempo e serenità per affrontare i propri nodi strutturali e ridurre il peso del debito.
Ma si potrebbe dire anche il contrario. L'amministrazione Obama, proprio perché punta sulla stabilità fra le due sponde dell'Atlantico, ha bisogno dell'amico italiano. Ha bisogno di un paese leale, governato da esponenti credibili. E nelle relazioni internazionali, come è noto, i rapporti personali contano parecchio. Negli ultimi due anni Obama ha costruito un legame tutt'altro che convenzionale prima con Giorgio Napolitano e poi con Mario Monti, il premier succeduto a Berlusconi. Non è casuale. L'Italia non può non rappresentare un tassello importante nella strategia europea della Casa Bianca, visto che i falchi sono a Berlino ed è con loro che bisogna fare i conti.
In questo anno l'amico italiano ha fatto la sua parte, mentre l'amico americano non ha mai smesso d'incoraggiare una soluzione concordata, senza strappi ideologici, dei problemi comuni dell'Unione. E in tal senso molto ha contato, come si può capire, la relazione fra Bernanke e Mario Draghi. È un mosaico di non facile composizione, ma spiega bene qual è oggi l'interesse comune e convergente di Washington e Roma.
Non c'è ragione di pensare che le cose cambieranno nel prossimo futuro; anzi, il voto in Germania nel settembre 2013 rende ancora più prezioso il rapporto che Napolitano e Monti hanno saputo costruire con Obama. La voce dell'America, e nel caso la sua capacità di esercitare pressioni, come è già accaduto nel recente passato, equivale a disporre di un potente alleato nella crisi della moneta.
Ecco perché Monti, in un messaggio personale che sfugge agli schemi un po' algidi delle consuetudini diplomatiche, parla dello «straordinario buonsenso» del presidente americano. Un buonsenso, scrive il premier, «che ho potuto apprezzare sin dal nostro primo incontro alla Casa Bianca nel febbraio scorso e che lei sa diffondere con rara efficacia nei fori internazionali». Da parte sua l'Italia, fa sapere Monti, continuerà a «essere attiva» in Europa. Come dire che eserciterà tutta la sua ritrovata influenza per rafforzare la compattezza e dunque la stabilità dell'Unione.
Il quadro è chiaro. E in tale prospettiva il premier può giocare delle carte che oggi nessun leader politico - e tanto meno nessun partito politico - è in grado di calare sul tavolo. Peraltro la politica non avrebbe motivo di contrastare una linea così ragionevole. Almeno su questo Monti non ha da temere agguati. Benché sia proprio Napolitano a sottolineare, con un filo di amarezza, che l'America ha dimostrato ancora una volta al mondo cosa significa possedere un forte senso d'identità nazionale, che nei momenti topici si traduce in quell'irripetbiile «fair play» di cui ha dato prova lo sconfitto Romney. Si tratta di quella coesione nazionale che da noi è un auspicio ricorrente, quasi mai in grado di tradursi in realtà.
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