
Ieri, tra le tante voci che hanno accompagnato la giornata politica, ce n'è una che descrive implacabilmente l'assurdità della situazione nella quale vegetiamo da quasi vent'anni. La voce vuole che i figli di Berlusconi, nel corso del consueto pranzo di famiglia del lunedì, gli abbiano chiesto di resistere al governo per non danneggiare le sue (loro) aziende. La voce, ovviamente, non è verificabile. E forse è solo un'illazione malevola. Ma - purtroppo - è plausibile, perché i destini del politico e dell'imprenditore sono stati, negli ultimi vent'anni, tutt'uno, in un intreccio vizioso tra interessi privati e cosa pubblica che costituisce uno scandalo senza pari nella storia delle democrazie europee. Il fatto che, dopo tutti questi anni, venga la nausea al solo nominare il conflitto di interessi, e perfino il suono di quell'espressione verbale sia mortificante per il milione di volte che la si è detta e scritta, non toglie che sia proprio questo, il conflitto di interessi, il vero succo del berlusconismo. Le fanfaluche sulla "rivoluzione liberale", le contorsioni politologiche, le dotte analisi socio-economiche, le diatribe sull'etica privata del premier sono solo il contorno di quella pietanza avvelenata. Uno che ha usato la politica come prolungamento dei suoi affari: questo è stato Silvio Berlusconi.
© 2011 La Repubblica. Tutti i diritti riservati